S. AMBROGIO

fonte immagine: duomomilano.it

Pubblicato su Un popolo in cammino – dicembre 1988

Il vescovo Ariano Assenzio era appena morto. Anche se era un Ariano convintissimo, con il suo senso diplomatico era riuscito, contro ogni opposizione, a mantenere fino all’ultimo, la propria posizione nella chiesa.

 

La scelta del nuovo vescovo poteva essere molto tumultuosa perché sia gli ariani che i cattolici erano forti in città e cozzavano l’uno contro l’altro.

 

Ambrogio che, era governatore di Milano, era responsabile del mantenimento dell’ordine pubblico, si era recato nel luogo dove si teneva l’elezione del nuovo vescovo. Questo certamente per prevenire il peggio.

 

Ambrogio non aveva nessun peso decisionale nella riunione degli elettori, infatti era soltanto un catecumeno, cioè un adulto che si preparava, attraverso la catechesi, a ricevere il battesimo. Ma durante questa assemblea si levò improvvisamente una voce che la tradizione vuole di un bambino: “Ambrogio vescovo!” in un istante tutti i presenti si unirono sul suo nome.

Ambrogio non era affatto d’accordo. Disse che era ancora un catecumeno, che la sua elezione era un vero atto di violenza contro la sua persona.

Tutto fu inutile; dovette piegarsi e divenne, contro la propria voglia, vescovo.

 

Perciò ricevette il battesimo e, otto giorni dopo, probabilmente il 7 Dicembre del 374, fu consacrato vescovo.

Non c’era assolutamente nulla di meritorio che predestinasse Ambrogio alla cattedra vescovile di Milano: come S. Paolo, alle porte di Damasco, il Signore, attraverso fatti storici della Chiesa, lo aveva cercato e gli aveva “cinto i fianchi”.

 

Come funzionario era onesto ed integro, ma non aveva mai mostrato uno zelo cristiano particolare: aveva più di 30 anni e non era ancora battezzato. Era una riproduzione esatta della società del tempo, non ancora completamente cristianizzata.

 

Nato a Treviri, il padre era stato capo della prefettura pretoriana della Gallia. La madre era una cristiana esemplare. Alla morte del marito ritorna a Roma con i suoi tre figli, due maschi, ed una femmina. Lo stesso papa Liberio le consegnò il velo monacale. Nell’ambiente aristocratico, ma severo, Ambrogio visse una gioventù ordinata e si dedicò agli studi classici e giuridici. La sua carriera fu rapida e brillante: lo portò, trentenne, alle più alte cariche di Milano, allora capitale dell’impero. Con la sua onestà ed il suo energico comportamento stabilì l’ordine nella città.

 

Ora cominciava, per lui, una nuova vita. Affrontò la nuova carica coscienziosamente e con la scrupolosità che era connaturata in lui per i compiti precedentemente svolti. Ma non si accontentò di essere un buon amministratore ecclesiastico, bensì iniziò col prendere molto sul serio il cambiamento di vita che gli imponeva la sua posizione di pastore del gregge di Cristo.

 

Divise tra i poveri i suoi beni e iniziò a condurre un’esistenza di lavoro e di studio. Si lasciò istruire dall’esperto prete Simpliciano che doveva poi essere il suo successore, ed iniziò lo studio della teologia, soprattutto dei padri greci senza tralasciare Filone e Plotino.

La sua teologia e la sua esegesi sono influenzate da Origene. Ma innanzitutto fu vescovo e padre dei suoi fedeli. In un passaggio dei suoi scritti Agostino lo descrive “Assediato da una folla di poveri tanto che con grandissima difficoltà si riusciva ad arrivare a lui”.

 

Si impegnò soprattutto al servizio della parola e alla predicazione del Vangelo attenendosi specialmente a Luca. Seppe interpretare la Sacra Scrittura e sviluppare la dottrina cristiana sull’esempio dei personaggi della Bibbia: Abramo, Giacobbe, Elia, Nabot. Illustrò i sacramenti e la liturgia sforzandosi specialmente di fissare l’aspetto morale e pratico della verità di fede.

 

La massima parte delle sue opere è costituita da prediche redatte per la pubblicazione che, con la redazione successiva, hanno perso un po’ della loro spontaneità e di quella naturale freschezza che faceva di Ambrogio uno degli oratori tanto ammirati che Agostino, lui stesso specialista in questo campo, non si stancava mai di ascoltarlo.

 

Amando la liturgia introdusse nelle funzioni sacre il canto del popolo, lui stesso scrisse degli inni e, ispirato dai canti greci, ne compose anche le melodie.

 

Ambrogio sapeva per esperienza personale quanto poco la società del IV secolo fosse penetrata di cristianesimo. Perciò predicò con insistenza i comandamenti morali del vangelo, In questo le sue affermazioni sul comportamento etico furono notevolmente ispirate da Cicerone, che cercò di trasportare nel cristianesimo.

In modo particolare sollecitò allo stato verginale sia negli scritti che nelle prediche.

 

A riguardo dei rapporti all’interno di una società in cui le differenze nel possesso dei beni materiali erano visibili anche nell’ambito della chiesa, si dimostrò un grande apostolo della giustizia sociale; la sua dottrina in questo campo, troppo poco nota, stigmatizza, con il rigore della giustizia e la severità del moralista, i tristi effetti del danaro e dei patrimoni troppo cospicui. In questo l’audacia delle sue idee e dei suoi ragionamenti supera perfino quelli di S. Basilio:

 

“Tu non dai al povero del tu, ma gli dai quello che è su, 

Tu ti sei appropriato di quello che è stato dato per l’uso

di tutti. La terra appartiene a tutti, non solo ai ricchi;

soltanto, coloro che non fanno alcun uso del loro legittimo

possesso sono meno numerosi degli altri che lo usano.

Tu paghi, dunque, soltanto quello che devi, e non si può

assolutamente parlare di una generosità non dovuta”.

 

La storia ha espressamente rilevato e sottolineato gli interventi del vescovo Ambrogio per assicurare l’indipendenza della Chiesa di fronte allo stato.

Per tutto il periodo delle lotte Ariane lo stato si era reso colpevole di molti e pesanti abusi nel campo che è proprio della Chiesa, a tal punto che il vescovo di Milano si era visto costretto a richiamare il principio dimenticato: “L’imperatore è nella chiesa e non sopra di essa”.

Se venivano offesi il vangelo o la giustizia, Ambrogio, superando ogni sentimento personale o di amicizia, richiamava in modo molto deciso chi gestiva la cosa pubblica. E, questo, un atteggiamento molto coraggioso per chi era stato un funzionario statale.

Egli costrinse lo stesso imperatore Teodosio il grande a riconoscere il diritto a sottomettersi ad esso quando ebbe fatto uccidere 7.000 persone tra le quali donne e bambini, a Salonicco, per vendicare l’uccisione, in una sommossa popolare, di un comandante goto.

Ambrogio censurò aspramente questo delitto e scomunicò l’imperatore, che inizialmente si oppose, ma poi si mostrò pentito. Nella notte del Natale del 390 il più potente imperatore della terra si presentò in abiti penitenziali per espiare pubblicamente la sua colpa ed ottenne, così, di essere riammesso nella Comunità della Chiesa. Cinque anni dopo Ambrogio tenne per lui l’0razione funebre.



Con finissima sensibilità parlò della Verginità e della Vergine Maria:

 

“Cristo ha trovato nella Vergine quello che Egli voleva

fare proprio ed assumere come Signore di tutte le cose:

La Verginità. La carne che in un uomo ed in una donna

è stata cacciata dal Paradiso fu nuovamente collegata

con Dio attraverso una Vergine”.

 

In nessun altro campo, però, Ambrogio rivela la profondità della sua anima come nella preghiera. Qui si manifesta il segreto della sua fede. Egli dipende da Origene e ritrova in lui la stessa anima:

 

“Gesù mio, lascia che io lavi i piedi tuoi Santi; tu li hai 

sporcati da quando cammini nella mia anima. Concedimi

 di lavare il sudiciume con cui ho profanato i tuoi passi. 

Ma dove troverò l’acqua di fonte per lavare i tuoi piedi?

Non avendone non mi restano che gli occhi per piangere;

e se io bagno i tuoi piedi con le mie lacrime, potrò poi 

purificarmi a mia volta”.

 

In molti scritti ci sono espressioni interiori che tradiscono l’umiltà del suo cuore, il rispetto per tutti gli uomini, Anche per i peccatori lo spirito del Vangelo non viene mai meno:

 

“Signore, dammi la compassione in ogni caduta che mi

 testimonia come cade un pescatore; che io non lo punisca,

 pieno di presunzione e di orgoglio, ma che io pianga e

 mi affligga con lui”.

 

Agli inizi del 397, ormai cagionevole di salute, dettò il suo commento al salmo 44. Giunto al versetto 24 disse:

 

“E’ duro trascinare attorno tanto a lungo questo corpo,

già avvolto nell’ombra della morte. Alzati, o Signore,

perché dormi? Vuoi respingermi ancora?”.

 

Queste furono le sue ultime righe. Esse mostrarono che la vita del vescovo di Milano era stata solo una lunga attesa del suo Signore e Maestro. Aveva svolto la sua vita nella donazione, nella dedizione. Il segreto di questo uomo non sta nelle cose che ha fatto, che costituisce solo il lato esteriore della sua personalità, ma sta nella sua anima, che arse di riconoscenza per tutta la vita, perché era stata afferrata dalla Grazia.

 

Voglia il Signore che sia così anche per noi: grati a Lui non per le cose che ci concede di compiere, ma perché, sorpresi dalla Grazia, dal dono del suo Amore, viviamo nella gratitudine di essere stati chiamati ad una vita di carità.





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