CORPUS DOMINI – Il miracolo di Bolsena

fonte immagine:chiesadimilano.it

Il miracolo di Bolsena

“fino a quando, o Signore, mi nasconderai il tuo volto?” ( Sal 12 ).

La devozione al volto Santo di Cristo, che dal Secolo XIV al XVII toccò punte di popolarità impensabile ai nostri tempi, nacque come tentativo di dare una risposta al grido del salmista. Soprattutto nell’alto medioevo le Messe penitenti che questo anelito spostò furono inferiori solamente a quelle in cammino nei grandi pellegrinaggi a Gerusalemme e San Giacomo di Compostela. A Roma, da ogni parte del mondo, fiumi di romei giungevano per pregare sulle tombe di Pietro e Paolo e dei Martiri, ma anche per venerare la vera Veronica nostra appunto dietro questo impulso di preghiera e di fede c’era il bisogno di vedere o immaginare il volto di Dio in quello di Cristo uomo, simile al volto di tutti, un bisogno di certezza nella fiducia amorevole tra l’uomo e Lui in un momento di deviazione di re e papi che indulgevano a rappresentazioni “secolari” di Gesù come Re strumentalizzato a fini politici per giustificare il potere terreno. E accadeva pure che per protesta contro questi abusi e contro il clero cieco e incontinente ci si scagliasse contro il Cristo, ci si vendicasse contro la sua immagine in croce, arrivando a toglierlo dalle Chiese, negando l’incarnazione, la passione, la resurrezione e la presenza reale nell’Eucaristia. Si polemizzava sulle cose di fede anche in piazza, nelle botteghe, al mercato. Comparvero predicatori nuovi, e in gran parte non erano preti né monaci, ma artigiani commercianti, giovani della buona società. Per rendersi credibili si erano fatti Innanzitutto poveri, per essere il più possibile vicini ad una umanità abbandonata. Le loro strade però presto si separarono: alcuni lottarono per un rinnovamento della Chiesa cattolica dall’interno, altri maturavano invece la rivolta contro Roma, provocando una rottura che ancora oggi perdura.

Il Peccato contro lo Spirito è il più comune in quel secolo e, quando più tardi il protestantesimo tenterà di devastare il regno della Grazia, si rifugerà nel comodo pecca fortiter et crede firmius, non tanto perché l’avesse inventato lui, quanto perché l’enunciato era già una norma seguita da molti in quei secoli di ascesi e di abissi. Una società, in breve, che inorgoglisce e si fa ammirare, ma che insieme delude e disorienta per le sue ambiguità e contraddizioni.

E’ in questo clima che in un giorno imprecisato nel 1263 ( o 1264 ) giungeva a Bolsena, pellegrini alla volta di Roma, un sacerdote di nome Pietro, proveniente dall’alto, turbato nell’animo e tormentato nello spirito per l’incertezza che nutriva nel credere fermamente nella reale presenza di Cristo sotto le specie consacrate del pane e del vino. Aveva intrapreso il lungo e disagevole viaggio per cercare nella solitudine e nella penitenza una risposta ai suoi tormenti e, finalmente a Roma, poter pregare sulle tombe di coloro che proclamarono la certezza suggellandola con Il martirio. Sulla via Cassia, appena varcati i colli brulli di Radicofani, gli si presentò una visione ampia e luminosa del Lago di Bolsena. Subito tornò alla sua mente la storia di Cristina che su quelle acque, ancora fanciulla, nella certezza della fede, aveva affrontato Il martirio vincendo i suoi persecutori, galleggiando sul lago come un fiore di ninfea.

Nell’animo di Pietro il ricordo della Santa bambina che non aveva dubitato delle verità di fede fino alla morte, aprì uno spiraglio di speranza. Sul far della sera giunse con altri Pellegrini nel piccolo borgo di Bolsena e bivaccando in uno dei molti ospizi che sorgevano nei pressi del Santuario della martire. Pietro quella notte la passò nella preghiera e nella meditazione in attesa dell’alba per poter finalmente pregare sulla tomba di Cristina. Alle prime luci del giorno i pellegrini furono ammessi al Santuario, il sacerdote entrò nell’umido oratorio sotterraneo fiaccamente illuminato dalle lucerne che ardevano intorno al Sepolcro della martire, in ginocchio come gli altri pellegrini si avvicinò alla tomba, venerò le reliquie, baciò devotamente la pietra sulla quale Cristina aveva lasciato impresse le orme e il suo anello lì custodito gelosamente. Chiese poi ai custodi del Santuario di poter celebrare la Santa Messa al piccolo altare sulla tomba di Cristina. Di nuovo i suoi dubbi cominciarono a tornargli la mente e il cuore, pregò intensamente la Santa affinché intercedesse presso Dio di donargli quella forza, quella certezza nella fede che l’avevano distinta nel martirio ma al momento della consacrazione, mentre teneva l’ostia sopra il calice, pronunciato le parole rituali, questa apparve visibilmente arrossata di sangue che copiosamente stillava bagnando il corporale. In quelle macchie vermiglie apparve finalmente ai suoi occhi il volto del Redentore. Al sacerdote mancò la forza di continuare il rito, pieno di confusione e di gioia avvolse le specie Eucaristiche nel corporale e si portò in sacrestia. Durante il percorso alcune gocce di sangue caddero anche sui marmi del pavimento e dei gradini dell’altare. Ripresosi Pietro dallo sbigottimento, accompagnato dai canonici di Santa Cristina e dai testimoni del prodigio, si recò nella vicina Orvieto, dove, temporaneamente, soggiungeva con la sua corte Papa Urbano IV, al quale confessò il suo dubbio chiedendo il perdono e la soluzione. Il sommo pontefice inviò subito a Bolsena Giacomo, vescovo di Orvieto, accompagnato secondo la tradizione, dai teologi Tommaso D’Aquino e Bonaventura da Bagnoregio, per verificare il fatto e portare fino a lui le reliquie. Al ponte di Rio Chiaro, oggi ponte del Sole, avvenne l’incontro tra il Vescovo, che tornava da Bolsena con le reliquie del miracolo ed il Papa che con il clero orvietano, i dignitari della sua corte e grande folla agitante rami di ulivo, gli si era processionalmente recato incontro. Genuflesso, Urbano IV ricevette l’ostia e i lini intrisi di sangue e li recò, tra la commozione e la gioia di tutti, nella Cattedrale orvietana, e dopo averli mostrati al popolo li pose nel Sacrario. Del Prete d’oltralpe non si seppe più nulla. Nello stesso tempo, nella permanenza cioè di Urbano IV a Orvieto, venne istituita dal pontefice per la Chiesa universale la Solennità del Corpus Domini con la bolla transiturus de hoc mundo, affidando a Tommaso D’Aquino di stendere officiatura emessa per la nuova festività, stabilendo che questa venisse celebrata nella prima quinta ferie dopo l’ottava di Pentecoste. Così il racconto del Miracolo attraverso il ricordo popolare di Orvieto e Bolsena. Questa narrazione, arricchitasi di particolari nel corso dei secoli, ha le sue fondamenta nei documenti dell’epoca, Il più antico dei quali si trova in una cronaca orvietana assegnata a Luca Di Domenico Manenti: “detto anno ( 1.264 ) in la Chiesa di Santa Caterina di Bolsena apparve il miracolo del Corpus Domini e portato in Orvieto per il vescovo della città con solenne cerimonia posato in Sacra Maria Prisca, come al presente si vede “.

Il testo di questa cronaca che va dal 1174 al 1413, è stato redatto definitivamente dalla seconda metà del Secolo XIV secolo o dai primi anni del successivo, utilizzando, probabilmente, sia precedenti cronache orvietane che antiche memorie di famiglia e tradizioni orali. Ma quella” miraculous del Corpus Domini “porta a pensare da una prima redazione tra il 1317 e il 1338, in quanto soltanto solo dopo il 1317 si dà pratica attuazione dell’intuizione dell’istituzione della festa del Corpus Domini e solo nel 1337 il governo di Orvieto stabilisce anche di portare processionalmente per la città il Corpo di Cristo e il Santissimo Corporale identificando le stesse reliquie del miracolo con la festa del Corpus Domini 



Lascia un commento