
Pubblicato su Un popolo in cammino – ottobre 1993
4 ottobre
Vogliamo chiedere a Dio la grazia di poter contemplare il volto dei santi senza fare l’errore o il peccato di proiettare sul loro volto le nostre preoccupazioni, il nostro modo di vedere le cose, la nostra sensibilità o perfino i nostri sentimentalismi.
Dobbiamo, invece, lasciare che dal loro volto emani proprio quella luce che essi devono e vogliono riflettere. Parlando di Giovanni il Battista, Gesù diceva: “non era lui la luce, ma era nel mondo per dare testimonianza alla luce. Gli uomini, però, hanno voluto rallegrarsi del suo chiarore, solo per poco tempo”. Oggi vogliamo contemplare il volto di S. Francesco d’Assisi, quel volto che tutti, ormai crediamo di conoscere perché fa parte della nostra tradizione ecclesiale e della nostra stessa cultura italiana. Un volto a cui tutti, anche i non credenti, si sono facilmente affezionati, data la molteplicità di elementi dedicati, poetici, umani, propri della sua “leggenda”. I fioretti fanno ormai parte del patrimonio culturale di tutti ed alcuni aspetti del francescanesimo sono molto di moda: l’amore alla natura, la passione per la povertà, le esigenze per la pace ecc. ecc.
Non sarebbe difficile, dunque, tracciare un profilo di S. Francesco già noto e perciò atteso. Ma appunto per questo noi ci rinunciamo.
Vogliamo, invece, scoprire il volto più propriamente “Cristiano” ed “Ecclesiale” di questo Santo. Vogliamo tralasciare tutta quella facile poesia a cui ci hanno abituati, per cogliere il nocciolo duro, la verità essenziale della personalità di Francesco: quella sua esperienza intima che ancora oggi può esigere da noi la conversione. Il resto è utile e bello, ma lo si può anche ammirare senza modificare di un centimetro la propria posizione umana. Dio, però, non ci da dei santi per accontentare il nostro gusto estetico, ma per chiederci un cambiamento radicale.
Cominciamo, dunque, da una affermazione che a tanti può sembrare strana. Forse non ci fu mai nella storia della Chiesa un momento così pericoloso, così potenzialmente pericoloso come quando Francesco venne al mondo. E non intendo parlare di un pericolo proveniente dall’esterno, ma proprio del pericolo costituito dalla sua persona. Il secolo di Francesco era chiamato il “secolo di ferro” e la Chiesa era appesantita quasi sopraffatta da fatiche, da umiliazioni e da peccati. In uno scritto composto verso il 1305, troppo a tinte fosche, ma indicativo di una sensibilità generalizzata, si dice: “la chiesa era ridotta ad un tale stato di umiliazione che, se Gesù non fosse intervenuto mandando una nuova prole che aveva lo spirito di povertà, già allora la Chiesa avrebbe dovuto sentire un giudizio di morte” (Arbore Vital). È una espressione pesante, ma rende abbastanza il clima che in quell’epoca si respirava. La personalità di Francesco avrebbe potuto essere pericolosa per la Chiesa. Perché è vero quel giudizio che si dirà di lui: “Francesco fu l’uomo più assomigliante a Cristo che mai sia venuto al mondo”. Questo, di per sé, è un giudizio che dovremmo lasciare a Dio, perché egli solo conosce l’intimo delle coscienze; però è un giudizio reale se si pensa all’impressione che Francesco fece ai suoi contemporanei, e se si pensa anche a tutta la speranza che quest’uomo, così semplice e povero, seppe suscitare. Basta leggere i racconti che vennero scritti immediatamente dopo la sua morte. Francesco venne canonizzato dal Papa, ad Assisi, soltanto due anni dopo la sua morte, e già la sua vita veniva raccontata sulla falsariga di quella di Cristo.
Sì legge di Francesco che nasce in una stalla tra un bue ed un asinello, di Francesco che va conformandosi sempre più al Signore: c’è il racconto di Francesco che cambia l’acqua in vino; c’è il racconto di numerosissimi miracoli; c’è racconto dell’ultima cena di Francesco scritta quasi con le stesse parole di quella di Gesù; c’è il racconto della morte di Francesco, con il suo piccolo corpo martoriato, con le stigmate e i segni della passione, ed i biografi dicono che sembrava Cristo nuovamente deposto dalla croce. Vorrei leggervi alcune di queste testimonianze, le più elementari, quelle che il popolo cantava, le cosiddette “Laudi” dedicate al santo.
Dicono: “Sia laudato S. Francesco, quel che apparve in crocefisso come Redentore”;
E ancora:
“quando fu da Dio mandato
Francesco lo beato
lo mandò che era intenebrato,
se riempì de gran splendore”;
“Oh Francesco da Deo amato,
Cristo en te se n’è mostrato”;
“Le piaghe en te si rinnovarono
en lo tuo corpo se trovarono
come l’ebbe il Salvatore”;
“S. Francesco luce delle genti
figura sè de Cristo Redentore”.
I termini e le espressioni che i suoi biografi usano per parlare di lui sono quelli biblici:
“Apparve la grazia di Dio, nostro salvatore, in questi ultimi giorni,
nel suo servo Francesco”,
così scrive S. Bonaventura parlando della nascita.
“Vi annunciamo una grande gioia, non si è mai udito al mondo un
portento
fuorché nel figlio di Dio che è Cristo Signore”,
Così dice frate Leone nella lettera enciclica che annuncia a tutti i
Frati la morte di Francesco.
Di lui si dice che aveva “un amico capace di ogni grazia”; gli si mettono in bocca espressioni come questa:
“Io sarò adorato in tutto il mondo”.
L’impressione, ripeto, che suscitò Francesco fu immensa e fu una impressione di conformazione a Cristo. Ora noi dobbiamo veramente meditare su questo: sul rischio che allora corse la Chiesa. Tanto per capirci: bastò che nel 500 vivesse un uomo che aveva una grande passione per Cristo, ma non era un santo, non era un S. Francesco, ed ecco che la sua voglia di riformare la Chiesa, la Chiesa occidentale si spaccò in due parti, in due tronconi, ed è ancora oggi così divisa. Si chiamava Martin Lutero.
Che cosa poteva accadere al tempo di S. Francesco? Ripeto,la Chiesa da un punto di vista storico e spirituale, non ha mai corso un rischio altrettanto grande.
Quello che vorrei raccontarvi oggi, proprio delineando la personalità di Francesco, è come quest’uomo riuscì da una parte a rassomigliare tanto a Cristo che ci fu perfino il pericolo che si parlasse di una “nuova incarnazione”, che si parlasse di lui di un “altro Cristo tornato nel mondo”; e, d’altra parte, egli non diede nemmeno il più piccolo pretesto per rifiutare o mettere in difficoltà la Chiesa. Anzi, la Chiesa venne totalmente sostenuta da Francesco, proprio come raffigurato in quel famoso “sogno di Papa Innocenzo” dipinto da Giotto.
Per capire questa avventura io mi servirò soprattutto di un documento autobiografico che più autenticamente descrive l’esperienza del nostro Santo: è il “testamento” di Francesco, scritto da lui poco prima di morire e in cui egli stesso racconta, quasi riepilogando velocemente, la propria esperienza spirituale.
Il primo capoverso di questo “Testamento” dice:
“Essendo io nei peccati mi sembrava cosa troppo amara vedere i
lebbrosi, ed il Signore stesso mi condusse tra loro ed io usai con
essi misericordia ed allontanandomi da essi ciò che mi sembrava
Amaro mi fu cambiato in dolcezza di anima e di corpo e poi stetti
Un poco e uscii dal mondo”.
Francesco data, dunque, la sua conversione al momento del suo incontro con i lebbrosi. All’inizio ci fu quel primo incontro celebrato dalla tradizione, quando egli volle vincere la sua ripugnanza. La “Leggenda” dei tre fratelli parla così di tale avversione:
“Confidava lui stesso che guardare i lebbrosi gli era talmente increscioso che non solo si rifiutava di vederli, ma nemmeno li sopportava, non sopportava di avvicinarsi alle loro dimore n’è di vederne qualcuno e sebbene la compassione lo stimolasse a far l’elemosina per mezzo di qualche altra persona, lui, però, voltava la faccia dall’altra parte e si turava le narici”.
Per capire quel primo gesto sconvolgente del “bacio al lebbroso” dobbiamo trasferirci nel mondo di allora. La lebbra era stata portata dall’Oriente dai Crociati, veniva considerata come un terribile segno inviato da Dio. I malati di lebbra venivano chiamati “i malati del buon Dio” e si diceva: “uomo sigillato dalla lebbra per volontà di Dio”. Quando un uomo si ammalava entrava nei lebbrosari che erano strutturati come i conventi: si leggeva l’ufficio divino, si pregava, non si poteva uscire senza il permesso del superiore, ecc.
Quando un cristiano entrava in un lebbrosario la Chiesa prima faceva celebrare una messa da morto e poi gli diceva: “tu resti nella Chiesa con la tua anima, ma il tuo corpo, segnato da Dio, è morto e devi solo aspettare la resurrezione”. Questo era il lebbroso: un segno della più tragica condizione umana e mortale. Un segno vissuto così tragicamente anche per le limitate conoscenze mediche del tempo, ma comunque vissuto come simbolo misterioso della caducità della vita umana, del comune destino di morte e resurrezione.
Francesco vinse la sua ripugnanza, accettò questa morte vivente, non solo una volta, ma andando a vivere con i lebbrosi. I primi “Conventi” francescani furono i lebbrosari, questo anche in seguito quando i primi seguaci del santo cominciarono a diffondersi negli altri paesi europei. Dopo l’esperienza con i lebbrosi (e legata ad essa) c’è la visione del crocifisso. Dice il suo biografo:
Al vedere Gesù crocefisso in croce si sentì sciogliere l’anima. Il ricordo della passione di Cristo si impresse così vivamente nelle più intime viscere del suo cuore che da quel momento quando gli veniva in mente la crocifissione di Cristo gli riusciva a stento trattenere le lacrime” (leggenda Maior n.5)
E Francesco ” difendeva” le sue lacrime. Diceva:” piango la Passione del mio Signore. Per amore di lui non dovrei vergognarmi di andare gemendo ad alta voce per tutto il mondo”. Quindi nell’origine dell’esperienza di Francesco c’è questo senso acuto ed appassionato del corpo sofferente di Cristo, questo rispetto del Corpo di Cristo come qualcosa che ti si può presentare in forma umile, malata ed emarginata e che, tuttavia tu devi baciare e compiangere con tutto il cuore, anzi, devi ” rassomigliargli”.
La povertà francescana non ha altra origine.
Per Francesco l’incontro con questa povertà umana, dell’ammalato, dell’emarginato, è stata la fonte di un incontro con Cristo e Cristo Crocifisso, per appassionarsi di Lui, per seguirlo, per identificarsi in Lui. Pensiamo a quanta grazia, dono, il Signore ci mette davanti agli occhi nella quotidianità della nostra vita! Ma, sentiamo che questo è dono per imparare a camminare sulla strada, per seguire le Sue orme, per identificarci in Lui che si fermava davanti alle nostre infermità ed ancora oggi come ieri condivide e piange?
Il Signore ci doni occhi per vedere e cuore per amare.
Vostro Don Angelo
(Continua)
