L’AFFEZIONE

Pubblicato su Un Popolo in cammino – febbraio 1998

Occorre che questa parola sia cancellata dal nostro vocabolario se essa, innanzitutto, non si traduce e non si documenta come perdono.

Noi siamo diventati incapaci di chiedere perdono perchè incapaci di perdonare.

Il peccato diventa puro sbaglio, un incomodo, un contrattempo, e non la normalità entro cui si agita la nostra povera vita. Il peccato è la cronica nostra incapacità di amare il Signore della nostra vita. Infatti facciamo le cose senza cuore, siamo incapaci di accogliere amando e valorizzando.

Spesso siamo capaci solo di prendere in considerazione per giudicare e distruggere. Così mancano di significato e di contenuto parole come: “ gratuità e ringraziamento”. Allora anche la preghiera che rivolgiamo a Dio è piena di pretesa, quasi fosse un contratto con lui. E altrettanto facciamo con gli uomini. La presenza di Cristo non nasconde i difetti, i caratteri delle persono con cui ci mettiamo assieme. Solo dà un significato ad essi perchè anche attraverso i difetti e peccati che incontriamo possiamo maturare.

Il Signore può, perfino, permettere ad un altro di commettere il male fino al delitto grande, per richiamare me: siccome siamo una cosa sola, Dio può permettere questo. Ma non possiamo regolare i conti tra noi prescindendo dal mistero di Cristo che si dona al Padre per pagare i nostri conti.

Se i nostri rapporti non sono sostenuti dallo stesso amore a Cristo saltano fuori alleanze parziali, privatistiche, o inimicizie radicate per divergenze di opinioni, che magari si tenta di coprire con una cordialità generica, superficiale e fittizia. Ci si rapporta gli uni agli altri per il temperamento che si ha e non per l’amore alla propria e altrui vocazione. Così non si accetta l’aspetto di mortificazione che la presenza dell’altro impone inevitabilmente;  si desidererebbe solo una corrispondenza. Ciò che non corrisponde al proprio modo di sentire e di vedere dà fastidio, si vorrebbe eliminarlo. Per noi la presenza dell’altro uomo deve diventare presenza di un Altro ben più grande tra noi: Cristo, la Chiesa che devono diventare il motivo della nostra affezione, anche se continuamente tradito dalla nostra miseria.

Diversamente si apre la strada al lamento continuo e mentre recriminiamo su ciò che non ci viene dato e concesso, tentiamo di imporre tra noi rivalità, istinto di primeggiare, invidia, gelosia, cioè non solo una profonda non accoglienza dell’altro, ma anche ostilità aperta.

Il perdono è il primo aspetto in cui si introduce la correzione. L’assenza del  perdono fa diventare la correzione del prossimo un giudizio cattivo, per cui tutte le nostre energie sono mobilitate attorno ad una affannosa ricerca dei limiti e delle mancanze dell’altro, meschinamente accanita nel notare l’errore ed il difetto dell’altro, di cui si finisce per vedere solo il negativo anche se teoricamente si dice che è una brava persona. Devo essere, innanzitutto, testimone della tua positività, altrimenti quali elementi ho per correggerti?

Concludendo: non solo non dobbiamo sentire tutte queste osservazioni come accuse negative, ma come pungolo che non ci faccia adagiare finchè non ci decidiamo a vivere secondo il modo con cui Gesù ha vissuto il suo rapporto con gli uomini: protesi a valorizzare e aprendo la strada ad una profonda maturità in Lui, affezionati agli uomini fino a sentire la bellezza e la bontà di ciascuno come la nostra bellezza e la nostra bontà e l’errore dell’altro come il mio errore che si corregge nell’abbraccio misericordioso del perdono.

 

Sosteniamoci in questa Quaresima lungo questo cammino perchè la Pasqua sia inno di gioia nell’amore.

 

LA PREGHIERA

Ecco la povertà: il possesso di Dio non è di qui, la sola povertà su questa terra è di non riuscire mai a pregare bene, di non riuscire mai ad amare bene, ad essere pieno di speranza. Questo si fa preghiera.

La povertà: Dio è un Dio geloso che mi fa correre, mi fa correre sempre, e io so che vorrei possederlo. Come si vorrebbe, quando si prega, sentirsi pieni di gioia e di pace; oppure anche senza gioia, ma sentire di averlo vicino! Vorrei pregare bene e non so fare nemmeno quello.

Tante ore di adorazione valgono quanto un pugno di sabbia e non si fa altro, spesso, che alzarsi e dire: “Ho pregato, ho sostenuto una lotta soltanto per stare sveglio, questa è tutta la mia preghiera: essere stanco, sfinito”. Nel pellegrinaggio del deserto algerino ho chiesto un giorno ad un padre di Charles De Foucaud: “Senta, io sto anche un quarto d’ora in chiesa senza pensare a Dio: non trova che è una mancanza, un raffreddamento?”. Lui si mise a ridere e mi rispose: “ Quando avrai cinquanta gradi di calore sulla schiena e camminerai sulle piste, ti accorgerai che starai più di mezz’ora senza pensare a Dio; quando avrai i piedi che ti fanno male per la marcia ti accorgerai che non penserai a Lui; quando avrai fame e sete ti accorgerai che c’è qualcosa di doloroso……”.

L’unione con Dio non è come quando si è preso un buon caffè e si va a fare la meditazione e tutto è in ordine ed in pace; l’unione con Dio trascina adagio adagio sulla Croce ed ha bisogno di ferire l’anima per poter penetrare dentro, per togliere il veleno che il peccato vi ha lasciato. E’ povertà anche la povertà di non saper pregare. E’ proprio questo il momento in cui si prega meglio perchè il cuore, la vita, sono disposti a lasciarsi interrogare, a lasciarsi ferire per guarire i propri errori, il momento in cui guardando l’umanità e l’amore di Cristo ti accorgi della tua povertà e desideri un briciolo della Sua grandezza.

La Quaresima è anche questo:

“Guardare la Sua fedeltà, il Suo amore”

“Desiderare che la Sua fedeltà ed amore

Siano, almeno un poco, miei”

La Quaresima è anche PREGARE

 

LA CARITA’

Noi non portiamo Dio agli uomini che non lo conoscono: Dio ci ha preceduti da tempo. Dio è il grande missionario: “Egli illumina ogni uomo che viene al mondo”. (Gv. 1) “Attira tutto verso di sé”. “Chiunque è per la verità comprende la Sua voce”.

Noi li aiutiamo soltanto a riconoscere l’origine, il senso, la vera natura di questa realtà della quale vivevano prima di noi. Amare una persona è assolutamente diverso dal farle dei regali: è risvegliarla alla totalità del suo essere. Allora diventa possibile una vita personale “piena”. Benché non sia indispensabile, è prezioso prendere pienamente coscienza di ciò che ci guida e che ci anima. Senza dubbio si può seguire una condotta giusta con idee sbagliate ed una condotta sbagliata con le idee giuste.

L’ideale è unificare le idee con la condotta.

Ora, un’osservazione paziente ed oggettiva dell’amore, che ci porta a servire i nostri fratelli, ci fa constatare che l’amore è in noi come se fosse cosa nostra; più il nostro amore si perfeziona, più ci rendiamo conto che ci è donato, che non ci appartiene, che la condizione per diventare grandi in esso è di cancellare maggiormente noi stessi.

L’amore è in noi come una comunicazione, a volte come una forza che ci muove e come una persona che ci ispira mentre passiamo. Il cristiano esprime questa esperienza dicendo: “Non sono io che vivo, ma è Cristo che vive in me”. Poiché siete stati abbastanza poveri per osservare e credere alle grandi cose che Dio fa, nella vostra povertà potrete aiutare gli altri a riconoscere e credere alle grandi cose che Dio fa a loro nella loro povertà.

Questo da sempre.

La Chiesa non monopolizza né Dio, né la Grazia, né l’Amore. Essa ne è (o dovrebbe esserlo attraverso noi cristiani) il sacramento, il segno, l’espressione, cioè la rivelazione, la manifestazione di ciò che lo Spirito di Gesù suscita senza sosta in ogni uomo.

Il cristiano è semplicemente qualcuno che ha incontrato il Cristo, che ha sperimentato che Gesù è vivente oggi, vive in lui e negli altri; che crede che l’Amore è Qualcuno.

Dicendo questo, propone modestamente il risultato della sua osservazione, la coscienza che ha della vera natura della vita che egli vive, e lo verifica costantemente nella sua vita e in quella degli altri.

Cosa manca agli altri? Hanno ragione più di quanto immaginino perché amano e servono come già fanno.  Manca a loro di rivolgersi coscientemente ad una sorgente inesauribile di ragione e di forza di amare. Per noi cristiani, senza questo riferimento concreto a Cristo, tutti i valori morali diventano astratti: ideali, dimostrazioni, filosofia.

La più bella definizione di un cristiano: non è un virtuoso, un intelligente, uno particolarmente capace, ma “qualcuno che è abitato” abitato da Dio col quale dialoga e poiché sa di essere oggetto di amore, può essere forte di amore.

Spesso ho creduto che la differenza fra un cristiano ed un ateo fosse almeno questa virtù: la povertà. Senza dubbio, gli atei possono essere onesti, generosi, leali e razionali, ma la questione decisiva resta questa: vivono i loro valori nella autonomia, come proprietari, come se appartenessero a loro profondamente, totalmente.

Il cristiano è un povero: sa che riceve tutto ciò che dà. Ma purtroppo costatiamo che molti cristiani sono proprietari del loro Dio, della loro virtù, dei loro meriti. I cristiani possono dire agli atei animati da spirito di carità con San Giovanni Evangelista: “Voi adorate ciò che non conoscete. Noi adoriamo ciò che conosciamo”. (Gv. 4,22).

La campagna quaresimale a favore dei poveri, degli emarginati, non può essere il gesto farisaico “Ho dato” ma il gesto di Gesù. 

Ho dato amore perché sono amato dal Padre,

perché ricevo Amore. E tu darai amore perché in

Cristo ricevi amore e diventi capace di amare.”

Non sarà, allora, una posizione farisaica:

“Io ho fatto bene…..quello in fondo alla sinagoga è un pubblico peccatore. Sì, è vero, si batte il petto pentito, ma è sempre un peccatore, io sono giusto.”

 

Ma un gesto cristiano:

SONO RESO CAPACE DI AMARE PERCHE’ MI SENTO ABITATO DA CHI SEMPRE MI AMA E MI STIMA.

Don Angelo



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