
Pubblicato su Un popolo in cammino nel dicembre 1993 in occasione della proclamazione a “venerabile”
Ogni tanto in cielo accade un dialogo. È la Bibbia che ce lo racconta, anche sotto il velo della parabola. E ci racconta di un Dio che guarda con fierezza e con affetto le creature che gli sono affezionate ( come ” quel giorno” indicava dall’alto la persona del giusto Giobbe ), mentre Satana, davanti a Lui, ribatté: ” Forse che Giobbe ama Dio per niente?”. ” Forse che le tue creature ti amano senza interesse? ” Ti amano perché ricevono tutto da te, perché sono riempite dei tuoi doni, ma prova a ritirare la tua mano, prova togliere loro quello che hanno, prova a lasciare che io le ferisca nella carne e nelle ossa e vedrai come ti malediranno!. Così Satana sfida Dio: “stendi un poco la tua mano e toccalo nell’osso e nella carne e vedrai come ti benedirà in faccia! “. ( Gb 2,5).
E Dio deve accettare la prova: ” il Signore disse a Satana – eccolo nelle tue mani! ” soltanto risparmia la sua vita! -” ( Gb 2,6). Così sulla terra e sull’uomo si riversa la disgrazia, il dolore tormentoso ed irrazionale, la sofferenza atroce senza fine.
E molti cedono al ricatto di Satana. Anche le persone più care e più vicine , anche la moglie di Giobbe può vacillare e dire al marito: ” Rimani ancora fermo nella tua integrità? ” Maledici Dio e muori! . Ma Giobbe ” non peccò con le sue labbra” ( Gb 2,10-11 ).
Da molti altri, tuttavia, il dolore è vissuto come maledizione lanciata verso il cielo; ribellione a volte violenta, a volte sorda e muta.
In certe epoche, poi, la paura del dolore diventa così folle, talmente disumana, che non ci si rivolge più nemmeno a Dio, ma si maledice Semplicemente la vita, il dono della vita, e gli uomini imparano a consigliarsi l’un l’altro come distinguere la vita degna da quella indegna, ed a distruggere quella in cui il dolore si affaccia. La vita che porta o può portare con sé la disgrazia, propria o altrui, viene distrutta ancora prima che si sviluppi. La vita che diventa amara per malattia, per la vecchiaia, per un suo trascinarsi senza scopo apparente, impara a cedere al programma sociale di una falsa “buona morte”. E così la maledizione, non più rivolta a Dio, ma alla vita, perde perfino la sua drammaticità e diventa una questione di statistiche e di percentuale, ed una questione di legge da imbastire per dimenticarsi sia di Dio sia la sofferenza che egli non ha saputo o voluto impedire. E Satana sembra vincere, oggi, la sfida. Tanto più in quanto, dopo Giobbe, c’è stato lo stesso Cristo, il Figlio amatissimo di Dio che ebbe l’anima triste da morire e sudò sangue nella nostra terra, a mostrarci che il dolore è dentro l’abbraccio eterno con cui il Padre Celeste stringe a sé il suo figlio unigenito.
Ma molti sembrano aver dimenticato.
Allora Dio si dedica a scrivere nuovamente l’antico libro di Giobbe ed il più nuovo racconto della passione del Suo Figlio unigenito, perché egli volle essere benedetto nel mistero della sofferenza.
Allora accade nuovamente il miracolo.
Benedetta Bianchi Porro, per il nostro tempo, proprio per il nostro tempo, è stata questo miracolo e noi vorremmo meditare la sua passione per riscoprire attraverso lei la passione di Cristo e la nostra partecipazione ad essa!
Benedetta è nata in un paesino della Romagna ( a Dovadola nella provincia di Forlì) esattamente cinquant’anni fa. Per molti è una coetanea.
A dieci anni è ospite di una famiglia bresciana e frequenta la prima media (nel 1946) presso le suore Orsoline . Nel 1951 frequenta la prima liceo classico al liceo Bagatta di Desenzano: l’intera famiglia si è trasferita a Sirmione. Gli amici più cari di Benedetta partecipano quasi tutti alla vita di Gioventù Studentesca, lo stesso movimento ecclesiale a cui appartengono anche alcuni di Jerago. Con lei discutevano gli stessi argomenti e gli stessi ideali.
Benedetta è, dunque, una ragazza della nostra epoca, della nostra storia, che ha frequentato gli stessi nostri ambienti. Ma ha avuto un privilegio che nessuno di noi avrebbe giudicato tale: Dio l’ha amato in un modo indicibile e l’ha segnata con la sua presenza crocifissa.
La piccola Benedetta è una bambina tenera e volitiva, come tanti altri bambini, ma è difficile leggere i suoi piccoli diari – iniziati a 5 anni per volontà della mamma – senza avere già un nodo alla gola.
Si vede una stupenda sensibilità – quella per cui i bambini ci lasciano così spesso pensosi – ma già segnata da uno struggimento, da un destino di dolore che si annuncia da lontano:
“Oggi ho gettato in alto tante piume, con la speranza che le rondini le prendessero per costruirsi un nido”;
“Ho giocato assieme alla Caterina e con dei legni abbiamo formato il sole, la luna e le stelle”;
“Ho fatto un giro con i pulcini e la chioccia”;
“Ho fatto il bagno alle oche, ad una ad una”;
“Natale ha tagliato la lana ad una pecora, ed io spero che non abbia sentito male”.
I diari sono dipinti da una bambina che guarda con occhi stupefatti la bellezza della vita dei campi, ma anche l’angoscia della guerra: soldati tedeschi, polacchi, inglesi, aeroplani, bombardamenti, pericoli appena mancati….
Una editrice bresciana – la Morcelliana – ha potuto editare un bellissimo album di quaranta tavole in cui i ” pensieri di Benedetta”, da quelli più semplici a quelli più dolorosi e profondi, sono disegnati da alunni di quarta elementare. E sono disegni di una bellezza commovente. E spesso quelle piccole annotazioni di Benedetta sono intramezzate dal dolore, come ne ere segnato il suo piccolo corpo di bambina.
“Il sole brucia e sono debole. La mamma mi sgrida perché
mangio poco”;
“La mamma ha lasciato la finestra aperta perché entri il sole, ma sono entrate anche molte vespe. Io ho avuto paura. Ho male alla testa”;
“Ritornando da scuola mi si piegavano le ginocchia per la
debolezza, ed il sudore mi scorreva dalla fronte”;
“Angela la vecchia si sente male. Anch’io ho male alla testa”;
“Mi sono divertita ma mi sento debole”;
“Il piede mi fa molto male . La testa mi brucia forte. Dalla finestra entra un bel sole che riluce tutta la stanza, ma io non posso giocare”.
Agli inizi è solo mal di testa; è anche una scarpa ortopedica che la bambina deve portare, sembra per postumi di poliomielite.
Agli inizi è l’esperienza della diversità. Il sentirsi chiamare “zoppetta” da qualche compagna. Quando la mamma viene a saperlo è la bambina che interviene: “Non dovete prendervela! In fondo dicono la verità. Sono zoppa”.
Agli inizi è non poter giocare come gli altri; non poter contare sull’agilità dell’infanzia.
Poi a dodici anni è un busto:
“Stamattina ho messo per la prima volta il busto, che pianto!
Mi stringe forte forte sotto le ascelle e quasi mi toglie il fiato…
Mi pare ora di constatare di più la causa della mia disgrazia:
prima ero sempre spensierata e mi credevo quasi uguale agli altri, ma ora…
Che precipizio ci separa, non potrò mai avere le gambe uguali e se non portavo il busto, forse sarei diventata gobba”.
“Ma, – aggiunge – nella vita voglio essere come gli altri, forse più, vorrei diventare qualcosa di grande. Quanti sogni, quante lacrime, quanta nostalgia, melanconica povera Benedetta”.
Poi – mentre la scuola continua con il suo solito ritmo impegnativo – verso i sedici anni è l’inizio di una sordità sempre più totale, così inspiegabile che viene scambiata per effetto di una malattia nervosa:
“Sono stata interrogata in latino: ogni tanto non capivo
quello che il professore mi chiedeva, che figura devo
fare ogni tanto!”
“Nell’intervallo ho parlato con il professore di Italiano…
e naturalmente non capivo nulla; se ci penso mi vergogno
ancora…”.
“Non ho capito quasi nulla della lezione di arte. È proprio
un bel pasticcio”.
L’umiliazione è grande come il mare. Racconta ad una amica:
“Spesso parlano ed io mi devo accontentare di sorridere.
L’unica scappatoia è quella di far credere di essere tonta
e non sorda, perché – credimi – la gente ride di questa infermità e deve essere una cosa ridicola il non sentire quando uno ti parla”.
Eppure sa scrivere:
“Ma cosa importa? Un giorno, forse, non capirò più
niente di quello che gli altri dicono. Ma sentirò sempre
la voce della mia anima: è questa la voce che devo seguire”.
Continua a studiare instancabilmente e ad accumulare interessi: letteratura, arte, anche musica. Riesce a dare anche la maturità con un anno di anticipo. Guardandosi, ed è una ragazza molto bella, scrive ad una amica ironizzando su se stessa:
“A volte mi pare di essere un monumento nazionale
dei mutilati di guerra!”
All’università inizia lo studio della medicina. Deve sopportare umiliazioni d’ogni genere: dall’avere qualcuno che risponda per lei all’appello, all’isolamento, al trovare un professore che le getta in mezzo all’aula il libretto perché all’esame non vuole interrogarla per iscritto:
“Non s’è mai visto un medico sordo!, grida.
“Stasera – scrive Benedetta – sono triste se penso che
non riuscirò a resistere tutta la vita così sorda”.
Eppure riesce a dare tutti gli esami. Vuol diventare medico ad ogni costo:
“Mi basterebbe arrivare ad esercitare come l’ultimo dei medici”.
Viene respinta all’ultimo esame di igiene, quando ormai non ce la fa più a continuare, e quello che ha studiato le serve per diagnosticare lei stessa la sua malattia di cui nessuno sembra di capire nulla: neuro fibromatosi diffusa o morbo di Recklinghausen, una forma tumorale dei tessuti nervosi che conduce progressivamente alla perdita di tutte e cinque i sensi.
A ventitré anni, dopo un inutile intervento chirurgico al midollo spinale, resta totalmente paralizzata agli arti inferiori, pian piano perde il senso del gusto e dell’olfatto. Non ci sono più odori ne sapori di nessun genere. Poi scompare la sensibilità tattile che si concentra solo in un unico punto, la palma della mano destra: da allora in poi per comunicare con lei dovranno premere, con un alfabeto convenzionale, questa piccola “porticina” del suo essere martoriato. A ventisette anni, il 28 febbraio 1963, mentre sta assistendo alla S. Messa, durante l’elevazione, gli occhi le si riempiono di sangue e diventa completamente cieca. Per cinque ore non dice a nessuno che il buio assoluto ormai la avvolge. Poi, al prete che ha celebrato la S. Messa confida:
“Padre, sono serena ed ho tanta luce in me, anche se
da poco ho perso completamente la vista”.
Riesce a parlare con una voce roca e confusa.
Questo è il quadro esterno di una terribile passione.
L’elenco è così triste, ed è stato limitato ai fatti più gravi, tralasciando gli innumerevoli interventi chirurgici che a volte si concludono con una sventura ancora più grave.
È la passione di una dolce creatura quasi totalmente murata in se stessa: come se le venisse chiesto di sperimentare viva, il suo progressivo e terribile morire. Ma è in questa passione che accade il prodigio.
Cristo si avvicinò a lei; meglio dimostrò di essere in lei, secondo quella verità rivelata ed insegnata dall’Apostolo Paolo: “Non sono io che vivo, ma è Cristo che vive in me”.
Verità di ogni battezzato (e, in qualche modo, di ogni essere umano) ma che resta così spesso opaca e non sperimentata per un nostro eccessivo protagonismo carnale ed, a volte, spirituale. Per una nostra oscura dimenticanza. Cristo, dunque, dimostrò di essere in lei.
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Qual è il nostro compito di seguaci di Gesù nell’avvicinare i nostri ammalati? Innanzitutto pregare che doni a noi la Fede perché i nostri occhi lo vedano, le nostre orecchie lo sentano ed il nostro cuore lo segua anche in questa esperienza dolorosa. Nessuno dona ad altri ciò che non ha, nessuno dona speranza se speranza non ha, nessuno dona amore se non ha amore. Perciò preghiamo di avere occhi per vederLo e orecchi per ascoltarLo e cuore per amarLo.
Allora saremo capaci di condurre i nostri ammalati ed i nostri anziani o disabili a comprendere e a fare esperienza di questa presenza di Gesù in loro che vuole comunicare a coloro che li avvicinano la verità della passione e morte di Cristo e la profonda certezza della resurrezione che vive già in loro in questa esperienza dolorosa.
Gesù vuole, ti chiede di nascere in te ogni giorno, di esprimersi attraverso te, la tua carne, le tue ossa, il Suo Grande Amore e la Sua affezione nei confronti della nostra umanità.
Con affetto, gratitudine fiducia
vostro
Don Angelo
(Continua)
