Incontro con Don Massimo Camisasca in occasione del IV dies natalis di Don Angelo Cassani

Jerago 5 dicembre 2010

Incontro con Don Massimo Camisasca in occasione del 

IV anniversario del dies natalis di Don Angelo Cassani.

Tema: Paternità, Lo sguardo che dà consistenza all’uomo

INTRODUZIONE DI MARCO FERRARIO

Come ogni anno affrontiamo un tema particolare. Gli anni scorsi  abbiamo parlato della fede poi della speranza, poi della carità. Quest’anno invece il tema è la Paternità. Ricordiamo Don Angelo partendo da questi temi proprio perché tanti di noi hanno incontrato Cristo attraverso di lui, attraverso alcuni aspetti, della sua personalità, del suo essere sacerdote, del suo essere padre. E’ sempre stato, sono sempre state occasioni la sua paternità, la sua fede, la sua speranza, la sua carità di farci conoscere questi aspetti con cui Cristo ci viene incontro, con cui Cristo si fa presente nella nostra vita e allora il nostro ricordo di don Angelo non è mai un ricordo nostalgico, non è mai un ricordarci di quanto era bravo, buono e bello, ma è sempre un guardare a lui come accennato segno a Cristo che ci guarda, a Cristo che ci viene incontro e allora anche quest’anno affrontiamo il tema della paternità perché don Angelo è stato padre di molti di noi, ci ha proprio generato alla fede, ma soprattutto a me piace ricordare tutte le volte in cui andavamo a Vitorchiano,  piuttosto che partecipavamo ad un pranzo, una cena, una gita, in qualsiasi momento c’era sempre lo sprone a porre delle domande, a giudicare di quello che stavamo vivendo, a guardare alla realtà, ad appassionarsi alla realtà che stavamo vivendo con lui, a chiedere le ragioni delle cose, era proprio un’educazione costante a guardare alla realtà come segno di Altro, come realtà offertaci, dataci; era innanzitutto occasione a guardare le cose e a Chi ce le dà, a farci appassionare alla realtà, a renderci maturi e a farcele afferrare. Per parlare proprio della paternità abbiamo pensato di invitare Mons. Massimo Camisasca perché da un lato è superiore generale della Fraternità Sacerdotale San Carlo Borromeo quindi è padre anzitutto di molti sacerdoti, sono più di 100 sparsi in tutto il mondo, e di molti seminaristi, soprattutto conosceva don Angelo personalmente.

Ha pubblicato quest’anno un libro intitolato: “Padre – ci saranno ancora sacerdoti nel futuro della chiesa” – Un libro che mi ha molto colpito perché non parla solo di cosa necessita un sacerdote per essere un uomo maturo che affronta la realtà, la sua  vocazione, ma insegna e mostra anche a noi laici, a qualsiasi cristiano cosa serve per essere saldi, per essere certi, per essere maturi. 

MARCO

Don Massimo come hai conosciuto don Angelo, in quale occasione e che ricordo hai di lui?

DON MASSIMO CAMISASCA

La mia conoscenza di don Angelo risale aimè a molti anni fa, dico aimè perché segnala un dato cronologico importante. Nel 1967 io ero universitario di filosofia, seguivo i licei scientifici per GS,   c’erano già le avvisaglie della bufera che si stava preparando al di fuori del Movimento e nel  Movimento e don Giussani mi chiese di occuparmi dell’Azione Cattolica. Il Cardinal Colombo aveva chiesto a lui (penso) alcuni giovani che potessero animare l’Azione Cattolica Giovanile, il Centro Diocesano dell’Azione Cattolica Giovanile. Don Giussani pensò a me,  anche ad altri, così mi trovai catapultato in una situazione per me assolutamente nuova, che non conoscevo e dal giugno 1967 iniziò per me un’avventura che sarebbe durata 5 anni, fino al febbraio del 72 e prima mi occupai nell’Azione Cattolica Giovanile della città di Milano poi fui eletto Presidente Diocesano. Cominciai  a girare le parrocchie, incontrare i  giovani nelle parrocchie e per cinque anni non dico tutte le sere, ma, circa 3/4 sere la settimana giravo, avevo vent’anni e così incontrai  un’infinità di giovani tra questi cominciai ad incontrare nella città di Milano anche alcune parrocchie i cui sacerdoti già partecipavano ad un’amicizia molto viva con don Giussani e quindi avevano anche animato con questo che poi successivamente sarebbe stato chiamato “Carisma” allora non si usavano queste parole, anche la parola movimento era quasi sconosciuta, Comunione e Liberazione  al di là da venire!… e quindi era un ‘amicizia di giovani, un’amicizia di sacerdoti attorno a don Bruno De Biaso, parroco di Dergano e fra questi c’era anche don Angelo e così io, diciamo incontravo ufficialmente tutti questi gruppi giovanili  e diciamo con un’attenzione particolare, clandestina, questi che erano vicini a don Giussani e che non si sapeva neanche come chiamarli perché il Movimento non c’era, c’era il centro: “Peguy”

E così conobbi don Angelo che allora aveva la “ Ca Granda” (Parrocchia in periferia di Milano)  e qui c’è la Bruna Carniel, c’è don Nicola, ci sono persone che partecipavano, di quell’età;  Io sono più vecchio, ma anche loro non sono più giovanissimi.  Che cosa mi colpì di don Angelo? Che, anche successivamente (sono felice di aver trovato tra i cartelloni della mostra, un mio biglietto che gli avevo scritto nel 1977 quando ci fu l’attentato alla sua persona) mi colpì la straordinaria fusione nella sua personalità di due elementi che altrimenti sono invece lontani. Un primo elemento la forza di don Angelo, un uomo che aveva la sua intransigenza, per lui nero era nero, bianco era bianco, così io l’ho conosciuto, una forza che si esprimeva anche nella voce, nel tono, una certa rumorosità del parlare,  poteva anche suscitare e di fatto suscitava reazioni, che poteva anche allontanare o anche avvicinare, certamente non si poteva restare neutrali davanti a lui. Questo è indubbio. Nello stesso tempo assieme a questa sua forza, una debolezza. Egli era un uomo che non si nascondeva ma che si offriva, si offriva inerme, direi, a chi sapeva  vedere in profondità la sua persona, si offriva in  tutta la sua passione e anche, appunto, in questa sua fragilità di uomo bisognoso di misericordia.  Ecco lui era questa fusione di lui, di forza, di offerta di sé che costituivano a mio parere il grande fascino della sua personalità e che attraevano i  giovani che ha attratto molti giovani che hanno fatto di don Angelo il tramite di incontro con Cristo.

MARCO volevo approfondire questa questione della misericordia perché troviamo poi in un passaggio del libro: “Padre” , a proposito del sacerdote tu dici proprio: “dove troverà il coraggio, la forza spirituale per andare sempre di più verso l’uomo? Tu dici:  “Soltanto nella certezza di essere uno a cui è stata usata misericordia e in un altro passaggio tu dici come oggi ci si allontana dalla confessione, sembra che non ci sia più bisogno di questa  misericordia, di vivere la misericordia; ci si ritiene già bastanti a sé stessi e completi. Forse è per questo che le figure dei sacerdoti oggi fanno particolare fatica, non si ricorre più alla confessione, c’è un certo distacco, l’uomo che si basta a se stesso non ha più bisogno di un Dio presente  e che gli viene comunicato attraverso un sacerdote.

DON MASSIMO CAMISASCA

Penso che sempre l’uomo abbia un po’ paura a guardare se stesso e che cerchi spesso di fuggire da questa povertà che è la strada della salvezza; cioè guardarsi per quel che si è. Si cerca di fuggire in tanti modi; oggi si cerca di fuggire attraverso lo stordimento delle immagini, attraverso la chiusura in sé stessi, con la tecnologia, si cerca di fuggire dagli altri e da sé stessi attraverso il computer attraverso video giochi, attraverso internet, attraverso la musica assordante, attraverso le droghe, attraverso il sesso disperato in cui si vuole più nascondere se stessi che trovare l’ amore, ma grazie a Dio questa chiusura in noi stessi può essere perforata ed è perforata da incontri, per questo la cosa fondamentale nella vita sono gli incontri, le grazie,  o, dico spesso, le amicizie, le amicizie quando sono incontri, quando sono incontri che veicolano una grazia, cioè che veicolano quella possibilità di sentirci amati. Ecco! qui sta il punto fondamentale nella vita dell’uomo. Vedete la cosa fondamentale della vita non è amare, è riconoscere di essere amati. Questo è molto più importante che amare, amare è successivo, amare è la sovrabbondanza di una grazia ricevuta, ma all’inizio ciò che conta è riconoscere di essere amati. Riconoscere di essere amati esige l’apertura del cuore, esige la scoperta di colui che ci ama e di coloro che sono  i segni di Lui che ci ama, esige la povertà. Da questa povertà  Dio  ci può risvegliare in mille   modi e di fatto ci risveglia in mille modi da questa povertà, attraverso  dei rapporti che si spezzano, drammi che accadono o delle gioie inattese e poi allora il nostro cuore si purifica, il nostro sguardo si purifica, diventiamo capaci di riconoscere che noi non siamo  frutti del caso ma siamo frutto di un tu che ci ha voluti, di un tu che ci ha seguiti e ci segue, di un tu che ci tiene in vita e ci alimenta, di una misericordia. Misericordia non è uno che semplicemente ci guarda  dall’alto e dice: ”tu sei nulla e io ti ho dato tutto”, ma un tu che ci chiama a partecipare di quello che Lui vive, che ci fa entrare nella sua famiglia, nella sua comunione, nella figliolanza di suo figlio. Allora io penso che la vita dell’uomo in questo momento ritrova il suo senso e allora di che cosa abbiamo bisogno noi uomini e di che cosa hanno bisogno gli uomini nostri fratelli? Noi abbiamo bisogno di riconoscere che qualcuno ci ama e gli altri hanno bisogno di trovare i segni di questo piegarsi su di noi. Quando mi chiedono che cos’è la Fraternità S. Carlo io rispondo: “E’ il segno che Dio ha avuto pietà”. Cioè che Dio non mi ha lasciato solo, ma che Dio attraverso altri fratelli ha creato per me una casa. Io ritengo che questa esperienza della casa che io ho imparato da don Giussani e particolarmente  dagli esercizi che ha predicato ai Memores Domini negli anni degli inizi dei Memores quando io partecipavo a questi esercizi. Questa idea di casa che don Giussani ha lanciato non parlando di convento o monasteri, ma di casa, quella laicità caratteristica del suo parlare è a mio parere un’idea fondamentale oggi ancora di più che trenta, quarant’anni fa, cinquant’anni fa quando lui la lanciò. Oggi noi viviamo, come è stato detto da un sociologo polacco, in una  società liquida. Che cosa vuol dire liquida, vuol dire società dei sentimenti brevi, società di cui è difficile dire per sempre, è difficile desiderare per sempre, in cui tutto nasce e muore molto in fretta, in cui i desideri  sono interscambiabili, oggi amo te, domani lui, domani l’altro, oggi voglio una cosa, domani un’altra tanto tutto è uguale, tanto tutto nasce e finisce come appunto un immagine sul computer. Come dare solidità alla vita? Ecco per me l’importanza dell’idea di casa di Giussani l’idea di casa che ritrovo in tutta la grande tradizione della Chiesa da S. Benedetto a oggi. L’idea del luogo oggettivo in cui i nostri sentimenti soggetti possono  trovare una loro solidità, una loro forma permanente, una loro educazione. Questo per me è ciò di  cui soprattutto oggi ha bisogno la Chiesa e ha bisogno la nostra società.  

MARCO – Il bisogno di casa è anche bisogno di padre. La tua domanda: “ci saranno ancora sacerdoti nel futuro della Chiesa?” trova una risposta nel titolo: “Padre” quindi una casa ha bisogno anche di una autorità, di un padre, tu spesso dici che oggi l’autorità abbia un po’ dimenticato questo aspetto di paternità; è una mancanza di padri sia nella Chiesa che fuori dalla Chiesa che stai riscontrando?

DON MASSIMO CAMISASCA – Sì, uscirà a maggio il libro che si intitola: “La casa e gli amici” in cui dirò queste cose. Dirò qual è secondo me oggi la forma della vita della Chiesa che io vedo necessaria. Nell’idea di casa sono contenuti questi aspetti: padre, fratelli e mura. Innanzitutto mura cioè occorre che la persona trovi un luogo in cui ci sono degli orari, in cui c’e un letto,  c’e un tavolo, ci sono delle sedie, c’è un ritrovarsi, c’è un parlarsi, c’è dunque un calore affettivo, c’e un freddo eccessivo o caldo eccessivo che sono tenuti fuori perché quello è il luogo  in cui la persona può ristorarsi. Ecco! Penso che quando parlo di casa parlo innanzitutto di questi dati oggettivi, ma certamente la casa è fatta anche di padre, madre e di fratelli. Questi sono gli altri due aspetti fondamentali della vita della casa.

Ora per quanto riguarda l’autorità e il dubbio che non c’è casa se non c’è autorità. Adesso non voglio stare qui e ripercorrere tutto il cammino di crisi dell’autorità che dal 1700 in poi si è andata incrementando nell’Europa. E’ un dato di fatto che riguarda non solo la Chiesa, riguarda  l’umano in quanto tale perché, vedete, se non c’è autorità non c’è l’uomo. Perché: se non c’è autorità non c’è libertà, perché noi (tertium non datur – direbbero i medioevali– non si dà una terza ipotesi!); o veniamo dal nulla o veniamo da qualcuno. Se non veniamo dal nulla e veniamo da qualcuno la nostra libertà è incontrarci in questo qualcuno. Perciò l’autorità è fondamentale nella vita. Certo ci sono tante autorità che ci fanno odiare l’autorità, che ci fanno allontanare dall’autorità, che hanno fatto forse dire che Dio è padre e padrone, hanno fatto dire preferisco essere solo che male accompagnato, ma non c’è niente di peggio di una cosa vera proposta in un modo sbagliato. Tutte le falsificazioni   dell’autorità non possono cancellare la sua necessità. Noi non viviamo senza gli altri, non viviamo senza maestri, non viviamo senza padri, perché veniamo al mondo biologicamente attraverso padri e madri, assistiamo, è vero, adesso a tutta la contestazione anche di questo, siamo messi in crisi anche da questo, ma non miglioriamo  la vita dell’uomo eliminando la paternità, la maternità. Non possiamo eliminare la paternità e la maternità non solo in senso biologico ma anche in senso pedagogico per crescere abbiamo bisogno di luci. L’ oblò di Jean-Jacques Rousseau che proponeva l’educazione senza padri, madri e amici ha portato al nulla, a uomini che si sono ritenuti dei, quindi padroni della vita degli altri. Allora la paternità non è solo una necessità biologica, è una necessità dell’esistenza, allora abbiamo bisogno di riscoprire questi padri e abbiamo bisogno noi stessi di riscoprire come noi possiamo essere padri e madri ed è questa la ragione per cui ho voluto questo libro, per cui oggi parlo di paternità, ma soprattutto cerco nel mio campo di tirar su dei preti che siano padri perché è curioso questo, ma forse anche da preti che sono padri può venire un aiuto alla fraternità di laici.

MARCO- tu dicevi che a vent’anni giravi già nelle parrocchie, sei già stato padre a vent’anni si può dire?

DON MASSIMO CAMISASCA Ho cominciato allora sì – quegli anni sono stati una scuola fondamentale per me, avevo molta incoscienza, ma l’incoscienza è un sacramento.

MARCO – Cosa ti ha fatto diventare padre, tu, personalmente, puoi riconoscere dei fattori per cui dire: caspita! questa esperienza mi rende padre e di questo ha bisogno un padre per essere tale.

DON MASSIMO CAMISASCA – Certamente un uomo per essere padre ha bisogno di un padre. Non si diventa padri se non si fa l’esperienza della figliolanza. Questo è assolutamente fondamentale e se penso proprio alla mia esperienza, questa incoscienza di cui parlavo prima, vuol dire che questo padre che nel mio caso era Giussani ma che lo erano anche altre persone, mi hanno buttato nella vita; cioè si sono fidati di me. Mi hanno affidato responsabilità che, appunto per fortuna ero incosciente perché se fossi stato pienamente consapevole non so se avrei preso, però… le ho vissute. Io mi ricordo giravo le parrocchie parlavo davanti a Prevostoni di Gallarate (mi ricordo Mons. Gianazza … allora …) o di Busto ecc. ecc. Io ero un ragazzo di vent’anni, adesso se ci penso mi vengono i brividi, innanzitutto chissà che cosa ho detto, poi so benissimo che cosa suscitavano le mie parole nella testa degli altri, mi ricordo una volta Mons. Gianazza diceva: ( proprio presentandomi quella sera) ho tenuto il suo foglio sul comodino, alla sera lo leggevo non capivo niente e dicevo: forse sarà perché è buio, poi riletti un’altra volta e non capivo niente ancora; una bella introduzione!… Incoraggiante! Io penso che i padri rilancino le persone nella vita. Questo è fondamentale però: che non si dimentichino dei propri figli.  Noi oggi vediamo molto correre in opposte direzioni. Padri e madri possessivi oppure padri e madri che si dimenticano dei loro figli. Di fronte ai problemi concreti: a che ora deve tornare a casa mio figlio? ad esempio, devo dargli le chiavi di casa o no,  devo lasciarlo andare in discoteca o no e quante sere la settimana?  Ecc.  perché sono queste le questioni. Io non ho delle risposte predeterminate dico che non possiamo semplicemente dire dei no e non possiamo dire dei si, dobbiamo accompagnare le persone lasciandole rischiare, correggendole continuamente nei loro rischi, ponendo loro le domande sulle questioni fondamentali: la felicità della loro vita, la corrispondenza delle loro esigenze più profonde, soprattutto ricordando che noi non siamo i proprietari dei nostri figli ma che essi ci sono semplicemente affidati e questa è una grande, profonda verità che dobbiamo ricordare, che ci libera forse anche da certe responsabilità che noi rubiamo a Dio e che ha Lui. Noi non siamo Dio, non possiamo determinare la vita degli altri; possiamo desiderare, dobbiamo educare, dobbiamo trasmettere, ma non possiamo determinare la vita degli altri. Non siamo i padroni della libertà degli altri, neppure dei nostri figli, neppure del marito e della moglie, c’è una alterità che rimane. Non a caso don Giussani ha chiamato: “ il rischio educativo” una delle sue opere più famose. Questo rischio è ineliminabile. Io non posso tirar su dei preti come voglio io; posso educarli, ma poi ciascuno avrà la sua peculiarità. Io dico sempre ai più accesi dei miei preti: “Io vorrei essere l’avvocato delle vostre differenze”  perché questo è il compito di una vera paternità essere l’avvocato delle differenze, cioè quello che ama le differenze dei propri figli custodendoli dentro un’unità altrimenti le differenze diventano esplosive se non sono custodite dentro l’unità.

MARCO Tu dicevi: “ ricordarsi che ci sono affidati”. C’è sempre questo aspetto che viene un po’  messo da parte, c’è un po’ la tendenza a separare Dio e la vita per cui i figli sono nostri perché ci sembra che Dio sia un’idea o qualcosa lontano dall’uomo; non Lo viviamo come presenza, non Lo viviamo come qualcosa che centra concretamente con la vita e così tante volte anche i momenti che servono a ricordarci questo: il silenzio, la preghiera che tu descrivi all’interno del tuo libro, spesso lo riduciamo a “momento religioso” per cui  quando abbiamo i mestieri da fare, i nostri lavori vari, la preghiera è la prima cosa che lasciamo da parte sottovalutando quanto questi elementi siano fondamentali per mantenere la coscienza che: ok! Noi siamo padri ma innanzitutto siamo padri perché abbiamo una responsabilità ricevuta da un Altro.

DON MASSIMO CAMISASCA – Io penso che uno dei grandi meriti di don Giussani sia stato quello di mostrare la necessità per l’uomo di ciò che la Chiesa insegna, che il cristianesimo non è semplicemente un rito che ritorna indipendentemente dall’uomo, come possono essere i riti  pagani, come erano concepiti i riti pagani, quelle cose che sono sempre e non accadono mai. Non è neppure semplicemente una serie di norme, di indicazioni, una saggezza come potrebbe essere Seneca o Epiteto; ma che il Cristianesimo è la salvezza dell’uomo, cioè: è la pienezza della vita umana quindi la necessità di ciò che il Cristianesimo ci vuole indicare. Ecco allora qual è la necessità dell’uomo, risiede in ciò che dicevo prima e cioè nel fatto che “io sono perché sono generato”. Questa è la necessità della preghiera, è la necessità del dialogo con Colui che mi genera, che mi genera ora. In questo senso la preghiera è l’atto più cosciente dell’uomo perché è il dialogo con Colui da cui io traggo ora la mia vita. Traggo ora le pulsazioni del mio cuore. Traggo ora il fiotto della mia intelligenza. Traggo ora la profondità dei miei desideri. Certo la preghiera non è solo questo, poi, in profondità  questo dialogo diventa conoscenza, conoscenza di Dio e del suo Figlio, conoscenza della Chiesa. La preghiera diventa luogo in cui tutta la vita trova la sua unità. Io personalmente oggi dico questo sempre con un certo tremore perché è intuibile, ma oggi non potrei più vivere senza il tempo del silenzio del mattino e della  preghiera del mattino, ma come potrei parlare con le persone durante il giorno, come potrei affrontare i problemi che devo affrontare, come potrei dire a una persona una cosa piuttosto che un’altra, come potrei consigliare, come potrei correggere, come potrei sorreggere se non fosse per quel dialogo con Dio che vivo al mattino. E’ lì che io imparo, che ricevo o penso di ricevere da Dio le parole che devo dire, anche quelle che non devo dire. L’insegnamento su che tono devo avere perché sapete, quando bisogna correggere si deve capire cosa dire, cosa non dire e con che tono dirlo. Ci sono delle correzioni che devono essere assolutamente fatte, altre che non devono essere fatte perché allontanerebbero definitivamente una persona. Altre che possono essere fatte, ma solo dopo un po’ di tempo. Altre che devono essere fatte con un certo tono ecc. Questo è solo un piccolo esempio di un particolare della vita,  ma voglio dire: senza la lettura continua  della scrittura dei Padri della Chiesa, dei testi di coloro che mi sono maestri, come potrei alimentare la mia vita quotidiana, dove trarrei la sapienza per leggere ciò che accade, dove potrei trovare le parole per parlare alla gente. Ho detto nel libro: “La preghiera è il silenzio popolato di nomi”. Sembra una definizione molto bella perché non è mia è Ungaretti, una poesia di Ungaretti. Ungaretti Ha popolato di nomi il Silenzio. Il silenzio è strettamente congiunto alla preghiera. Il silenzio è il capitolo più lungo di questo libro ed è un tema che mi sta molto a cuore proprio perché vedo che non c’è più. E se non c’è più silenzio il nostro sguardo si impoverisce, a poco a poco vede sempre meno, vede sempre più soltanto in superficie e poi a poco a poco non cattura più niente. Il silenzio non è la condizione che nasce dall’assenza di parole e di suoni il silenzio è il desiderio di uno sguardo più profondo e questa è una necessità, una necessità della vita. Io penso che se noi in casa non decidiamo  ad un certo punto di chiudere il televisore non decidiamo ad  un certo punto di cominciare a parlare, di cominciare a leggere assieme, di cominciare a dialogare fra noi,  quest’anno ai miei seminaristi ho detto: il primo anno di seminario facciamo un po’ di digiuno. Telefonino: via, personal computer: via. Non si moriva senza mail trent’anni fa, non si muore neanche adesso, se avete delle mail così importanti che non potete stare senza forse non è la vostra casa. Andate a sposare le mail. Penso che se noi non arriviamo un po’ a questa riflessione a poco a poco non  costruiremo più niente, vivremo una totale dispersione di frammenti. Questa non è la volontà di metà del popolo amish che vive ancora senza la luce elettrica come nel 700 ma semplicemente è il desiderio che ciascuno di noi possa tornare a ciò che è essenziale. Senza questo ritorno all’essenziale noi non potremo riscoprire lo sguardo vero su di noi. Vedremo tutto soltanto in superficie. Oggi la molteplicità delle immagini, di notizie ci impedisce un incontro con ciò che è reale. Oggi la gente non sa più cos’è la realtà, non lo sa più infatti io così ho detto ai miei seminaristi tre anni fa:”ragazzi torniamo alla terra”. Abbiamo piantato 100 ulivi nel nostro giardino e in settembre andiamo a fare la vendemmia. Bisogna rincominciare a capire cos’è il pane, cos’è il tavolo, cos’è il gatto, cos’è la gallina, bisogna ritornare a queste cose concrete perché ormai non c’è più concretezza tutto è immagine, tutto è sentimento,tutto appare e scompare tutto c’era e non c’è. Torniamo alle cose.

MARCO

Io ero incuriosito da un’affermazione che tu fai sull’amicizia, in particolate tu dici questo: “Quando un’amicizia  è vera apre ad un amore più duraturo,  aiuta ad amare di più Cristo e la Chiesa:  rende responsabili verso i compiti affidati, questa è la prova della verità dell’amicizia se essa ci rende più liberi nella dedizione nel lavoro nel sacrificio. A me stupisce perché io lavoro in un ufficio, un’agenzia di comunicazione, e spesso sembra che invece l’amicizia non sia necessaria, anzi, ostacoli la produttività, sembra che non sia qualcosa che agevoli il lavoro. Tu cosa vuoi dire quando dici: “ questa amicizia che ci rende più liberi nella dedizione, nel lavoro, nel sacrificio”.

DON MASSIMO CAMISASCA

Certamente oggi esistono teorie diverse  sul rapporto fattore umano produttività. Alcuni pensano che la produttività sia accentuata dalla riduzione  o  addirittura dalla eliminazione del fattore umano. Io penso esattamente il contrario . Penso che alla lunga il fattore umano è un fattore decisivo per la produttività, per la fecondità di una impresa. L’anno scorso ho fatto quattro incontri con degli imprenditori di primissimo piano a Milano proprio su questo tema: “Il fattore umano e la produttività” Io sono convinto di questo, sono convinto anche che nel tempo un’impresa non tiene senza questa continuità del fattore umano, si esaurisce in una generazione, al massimo due, è difficile vedere un’impresa che arriva a tre generazioni, una impresa famigliare che arriva a tre generazioni. Quindi se è vero che nei tempi brevi la competitività fino ad arrivare alla competitività mortale, mors tua vita mea, sembra essere l’anima della produzione  a mio parere in tempi medi e soprattutto lunghi questo non è vero. Cioè la competitività assoluta, la competizione per la competizione, la morte dell’altro come possibilità di vita mia non porta beneficio all’impresa, ma questo sarebbe un discorso che vorrebbe del tempo che non possiamo avere adesso, però entro nell’altro aspetto che accennavo e che si intendeva nel suo intervento, cioè i rapporti di lavoro non solo fra dirigenti ma semplicemente anche fra colleghi, io magari superficialmente ti considero amico voglio che tu mi consideri amico ma intanto parlo male di te così alla prossima occasione chi farà la scalata sarò io e non sarai tu, diventerò io dirigente e non tu ecc.  Allora può darsi che la scalata  possa andar bene ma non esiste solo la scalata nella vita. Nella vita dell’uomo ci sono un complesso di realtà di cui i valori affettivi non sono secondari. Infatti vediamo quanta solitudine poi c’è in questi uomini, quanto scacco alla fine si trova nell’aver lavorato soltanto per lavorare, per il successo del proprio lavoro, quanto interrogativo ci siano nei dirigenti d’azienda e di impresa su questa solitudine, su questo scacco. Io penso che l’amicizia è un valore aggiunto della vita, però penso che l’amicizia è un dono, quindi  non è qualcosa che si può programmare e ne preventivare, ma quando accade ed ecco arrivo al punto che ho accennato nel mio libro, quando accade l’amicizia dura nel tempo soltanto se diventa corresponsabilità. Ecco il senso di ciò che vi dicevo cioè io non credo all’amicizia per puro piacere, per puro divertimento. L’amicizia che ha dentro di sé aspetti profondi di piacere, di sollievo, di divertimento, di conforto, nel tempo regge e cresce soltanto se diventa corresponsabilità. Questo per dire la mia esperienza e quindi si può essere amici veramente se si è corresponsabili in un’avventura che può essere un’impresa, che può essere l’impresa di una famiglia che può essere una comunità come quella che guido io. Per me, per la mia esperienza personale, io vedo che sono amico veramente soprattutto di persone che si sono coinvolte con me nella costruzione di questa comunità e che alla fine mi hanno aiutato a portare queste responsabilità e a condividerle. Ecco in questo senso io penso che un’amicizia nasce come dono, ma matura soltanto come corresponsabilità.

Posso dirvi allora che a maggio uscirà questo nuovo libro: “La casa e gli amici” in cui riprendo questi temi però dal punto di vista della forma della Chiesa infatti si intitola: “La casa e gli amici” sottotitolo è “La Chiesa nel terzo millennio” Invece in novembre uscirà un libro che esprimerà  questi temi dal punto di vista della vita della famiglia e si intitolerà: “In prima linea come aiutare le famiglie” . Quindi la ripresa a questi temi dal punto di vista della famiglia quindi della vita tra marito e moglie, l’educazione dei figli, i temi della vita famigliare.

Visto quello che diceva il nostro amico, questo libro “Padre” che io ho scritto soprattutto pensando ai preti in realtà ho avuto una valanga di mail di rilanci che mi hanno detto: ma lei lo ha scritto anche per noi, allora ho detto forse è meglio che scriva un libro per le famiglie e quindi alla fine questo libro uscirà.

MARCO

Approfitto per farti ancora una domanda sul tema dei laici e del lavoro, questo aspetto della questione dell’autorità di cui abbiamo parlato prima. Tu parli dell’autorità dicendo: consegnarci a un superiore non significa alienare noi stessi in lui, nell’abbandonandosi alla sua volontà e visione delle cose. E’ molto interessante perché anche qui, nel lavoro, non è sempre facile rapportarsi con i propri superiori, obbedisci perché si va bene, ma io vorrei fare altro. Che cosa consente di seguire poi l’autorità, che cosa consente di obbedire.

DON MASSIMOCAMISASCA

Voglio fare una  premessa a questa risposta e cioè che raramente nella vita esistono situazioni ottimali. Questo è in paradiso. Sulla terra dobbiamo lottare. Voglio mettervi in guardia da un falso idealismo che potrebbe essere quello di chi dice: ecco io sto in questa comunità perché ho capito che è la comunità dei perfetti. Sei sulla strada della perdizione, la comunità dei perfetti non esiste, esiste al massimo la comunità di noi peccatori, perché quando riconosciamo di essere peccatori siamo nella verità. Questo è molto importante perché io trovo che uno dei pericoli più gravi che si possono incorrere oggi è quello dell’idealismo. Io sto nella Fraternità San Carlo perché vedo che qui siete tutti bravi! Non mi pare proprio, cancelliamo questo e entriamo nella verità. Perché altrimenti la persona va incontro a delle delusioni molto gravi, invece la considerazione di noi come bisognosi di salvezza e di conversione, questa è la Comunità vera. Il luogo della conversione.  Allora non ci sono rapporti ideali ci sono è vero superiori migliori e peggiori, ci sono capi bravi e cattivi, allora occorre fare giudizio su che cosa la persona desidera veramente e su che cosa desidera di più.

Ho fatto un  incontro un po’ di tempo fa chiamato da alcuni laureandi e laureati di CL della Bocconi proprio su questi temi. Mi dicevano per esempio: io adesso devo lavorare 10 ore, 12 ore al giorno, perché sono in questa azienda molto importante, in cui ho un posto rilevante ecc. ecc. Allora non ho più tempo per mia moglie, non ho più tempo per il Movimento, cosa devo fare?

Allora io dico questo: che cosa tu vuoi veramente nella tua vita, che cosa ti interessa di più, non penso che potrai salvare tutto, che potrai tenere assieme tutto. Dovrai operare una lettura della tua vita e vedere che cosa sia possibile sulla strada che stai vivendo che cosa più ti avvicina a Dio. Forse noi facciamo poco discernimento su questo, vorremmo tenere assieme tutto. C’era un tempo in cui la Chiesa scomunicava gli attori,  scomunicava anche chi andava a teatro perché il teatro voleva dire oscenità, forse  oggi c’è di peggio, ma comunque si aveva il coraggio di dire che erano oscenità.  Allora la Chiesa non aveva paura di dire: bene sono oscenità, chi và si senta fuori. Non tutto è strada per la felicità, quindi dobbiamo operare un discernimento. Io penso che se il mio datore di lavoro è una persona da cui io sono diviso da problemi di temperamento, va bene questa può essere una difficoltà di basso grado. Posso essere diviso anche da altri problemi, che mi impone orari che mi impediscono di vivere, o di vivere altro, o di vivere come io vorrei vivere. Forse è possibile trattare qualcosa o è intrattabile, o a lungo andare provoca la mia morte, la morte della mia anima. Se ciò che è in questione è veramente il tutto della mia vita, è meglio che io vada da un’altra parte. Oppure no, non posso perché ho famiglia, ho cinque figli non posso lasciare quel lavoro  perché cosa faccio: porto alla morte di fame i miei figli? Allora dovrò restare lì cercando in tutti i modi di aiutarmi e di farmi aiutare. Quindi non esiste un giudizio a priori però esiste la necessità di un giudizio e qui si vede l’importanze degli amici, delle persone che ci vogliono bene e delle autorità  perché è difficilissimo dare un giudizio da se stessi e può essere anche molto pericoloso.

DOMANDA Come insegnare ai ragazzi l’importanze di un rapporto di amicizia, che l’ amicizia vera non è quella dei social network?

DON MASSIMO CAMISASCA Il discorso ai ragazzi: i social network sono negativi lasciano il tempo che trovano, bisogna far incontrare loro degli amici allora capiranno che vale la pena di chiudere il computer e di stare con degli amici.

Per questo ho scritto in uno dei miei libri che la più grande grazia che una persona possa chiedere per un’altra che gli è cara è che trovi degli amici. Però il suo compito non è secondario, anzi, è importantissimo, non nel senso negativo di dire no! I social network sono negativi, io vi insegno una cosa brutta e dovete dimenticarla subito dopo. Bisogna aiutarli a capire il limite, il valore e il limite di quello strumento. Secondo me oggi nella Chiesa in generale c’è molto idealismo su questo e molto poco realismo. Si ha paura di essere indietro con il rischio di essere il fanalino di coda perché alla fine queste cose cambiano molto rapidamente. Noi dobbiamo avere il coraggio di guardare un po’ al futuro e il futuro sta nella comunicazione diretta che noi non possiamo perdere perché la comunicazione diretta è la strada fondamentale attraverso cui Dio ha voluto comunicarsi agli uomini con suo figlio.

MARCO

Mi permetto di farti chiudere su questa cosa: nel discorso che facevi tu prima sull’autorità, questa domanda: cosa ti avvicina più a Dio è la domanda che ti fa più giudicare, è la domanda, come in questo caso ti fa dire ok, ma il teatro,o il social network come un criterio di giudizio, perché è un criterio che ti fa guardare alla realtà, che ti fa guardare a che cosa hai realmente bisogno e ti fa accorgere che padre è anzitutto uno con la p maiuscola che ti mette davanti la realtà per una tua crescita, per un tuo compimento e invece questo aspetto è sempre rimesso e omesso.

Questo Padre che tu metti qui come titolo è anzitutto il padre con la P maiuscola.

DON MASSIMO CAMISASCA

Oggi si parla di laicità. Dio è fondamento della laicità, Dio è fondamento dell’essere, Dio non è un valore religioso. Dio è il fondamento dell’esistenza. Dio non è un bene di alcuni, è l’esistenza di tutti. Se noi releghiamo Dio nel religioso, nel campo soltanto di quelli che hanno fede, nel campo di alcuni privilegiati che lo possono conoscere, noi scardiniamo i fondamenti del mondo e della vita dell’uomo. Questo mi sembra sia il cuore dell’insegnamento di Benedetto XVI. Noi dobbiamo con coraggio mostrare la ragionevolezza della nostra fede e con coraggio parlare agli altri di Dio perché la conoscenza di Dio apre i sentieri autentici della vita per ogni uomo. Senza Dio la vita è oscura, non ha senso, è coperta di dubbi. Quindi Dio è il più grande valore laico che esista altrimenti noi accettiamo il confinamento della nostra  personalità in quel campo di internati che sono i matti che ancora hanno fede. Noi non siamo un campo di internati e di matti. Noi abbiamo scoperto che ciò che ci è stato donato è l’eredità di ogni uomo, nella vita di ogni uomo, che noi non vogliamo imporre a nessuno, ma che sentiamo così necessaria per noi proprio perché la scopriamo come fondamento e verità per la nostra esistenza. Vi ringrazio

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