
Nato a Come (Egitto)
251-252 morto nel 356
La storia, fin dai tempi antichi gli ha dato l’onorifico appellativo di “Grande”. Tuttavia occorre respingere nettamente tutta l’intera gamma di miracoli che circonda la leggenda di Antonio, anche se non si può fare a meno di registrare con stupore quel tanto che sta nella chiara luce della storia. Già il fatto di ricordare il nome del santo dopo 1600 anni è davvero sorprendente. Antonio, infatti, era soltanto un possidente del medio Egitto che non ha mai compiuto alcuna azione di portata storica come le gesta di grandi guerrieri o di grandi uomini di stato e di Chiesa.
Se ci si accorge, poi, di quanto, profondamente sia inciso nella storia di tutta la cristianità il suo nome, quale straordinario fascino sia stato esercitato dalla sua figura, fino ad incantare un imperatore come Costantino, il creatore della nuova unità dei cristiani, e un arcivescovo come Attanasio, l’incrollabile difensore dell’ortodossia nelle lotte contro le eresie e lo strapotere imperiale; e si riconosce che l’eremita fuggito dal mondo, costantemente alla ricerca di un sempre maggiore isolamento, ha dato il via al grande movimento della vita monastica, che continua saldo e sicuro attraverso i secoli anche con le opposizioni interne ed esterne e che ancora oggi, come a quel tempo è vitale, allora si incomincia davvero a pensare al “Miracolo”.
Se si riconosce, poi, in quale misura la cristianità occidentale, per lo più tra il XIV e il XVIII secolo, ha cambiato con numerose varianti il tema della leggenda di Antonio, si risveglia, allora, spontaneamente, il desiderio di sapere qualcosa di più preciso e particolareggiato di quest’uomo.
Antonio è avvolto in un fitto alone di leggenda, dalla quale i poeti e gli artisti (ricordiamo soltanto il pittore Matthias Grünewald morto nel 1528) hanno tratto ispirazione, ma di Antonio noi non sappiamo solo quello che narra la leggenda, bensì possediamo anche testimonianze di valore storico incontestabile che si possono confrontare con le attestazioni di altre personalità del passato. Questo non vale per la biografia di Antonio scritta dal suo Arcivescovo Attanasio di Alessandria intorno al 563, cioè nemmeno dieci anni dopo la morte del Grande Abate.
E’ vero che è stata presa come canovaccio per scrivere tutta la vita di Antonio, ma appare troppo chiaramente che l’intenzione dell’autore era quella di scrivere una epopea cristiana.
Abbiamo, comunque, altre testimonianze alle quali poterci affidare con maggiore sicurezza. Si tratta delle indicazioni che troviamo nella letteratura monastica del IV secolo. Vi sono, poi, le sette lettere di Antonio giunte fino a noi, in cui la sua personalità emerge con chiarezza, ma, soprattutto, esiste la famosissima raccolta delle “sentenze dei padri”, in cui sono stati riportati in grande quantità i “detti” di Antonio che ci consentono di riconoscere la sua fisionomia interiore meglio di lunghi discorsi e di tanti racconti.
Quando Antonio nacque, la cristianità antica viveva uno dei suoi momenti più difficili. L’imperatore Decio (249 – 251) nell’attuare la sua politica di restaurazione nazionale, stava promuovendo una persecuzione contro i cristiani estesa a tutto l’impero. Quello che fino ad allora aveva avuto un carattere locale diventava una realtà di portata generale: nessun cristiano, in qualunque regione romana vivesse, era più sicuro che, oggi o domani, i soldati di Roma non l’avrebbe trascinato di fronte al tribunale imperiale. Molti si spaventarono e la loro fede vacillava. Questo ha messo in luce l’eroismo di quelli che rimasero fedeli. Nei decenni successivi, fino al 313, quando Costantino emanò l’editto di tolleranza di Milano, essere cristiano significava vivere pericolosamente. Chi voleva esserlo doveva essere pronto a mettere a repentaglio, in ogni momento, la propria vita.
Quando aveva vent’anni gli morirono i genitori che gli lasciarono il patrimonio domestico da amministrare e la sorella minore da curare. E’ accaduto, poi, quello che ha messo fine alla sua tranquilla esistenza. Mentre, come al solito, assisteva al servizio divino ed ascoltava attento la lettura della Parola di Dio, sentì improvvisamente che essa si rivolgeva a lui: “Se vuoi essere perfetto, (così era letto il Vangelo di Matteo) vai, vendi quello che hai, dallo ai poveri, poi seguimi!”. Non era prima volta che Antonio ascoltava questo passo, ma fu come se in quel momento fosse pronunciato solo per lui scendendogli all’interno del cuore. La forza della Parola era tale da non poterle resistere. Ha fatto quello che la Parola diceva: Ha venduto i beni famigliari ed ha dato ai poveri quello che era necessario per provvedere alla giovane sorella e ha iniziato una vita nuova.
Egli non sapeva dove l’avrebbe portato.
Infatti era ignaro di quello che fosse la “vita spirituale”. Che cosa poteva fare di meglio che imitare coloro che nella Comunità Cristiana erano considerati uomini particolarmente pii? Erano questi gli “Asceti” che, ciascuno a suo modo, volevano vivere una vita che piacesse a Dio. Come questi “Asceti”, anche Antonio si ritirò dalla vita comune e si dedicò a pratiche religiose ed in particolare alla preghiera dei salmi. Agli inizi abitò ancora nei pressi del villaggio, ma ben presto si ritirò in una caverna del deserto libico e, successivamente, in un castello diroccato. Un amico gli portava lo scarso cibo di cui aveva bisogno. Quanto più si liberava da ogni schiavitù terrena, tanto più insostenibili diventavano le tentazioni dell’anima. Secondo le credenze dell’antico oriente, delle quali abbiamo un’eco anche nell’episodio delle tentazioni di Gesù, le tombe ed i luoghi solitari, ma soprattutto il deserto, erano il regno del demonio.
Antonio era penetrato in una zona del deserto e vi si era stabilito. Come non poteva accadere che il demonio, a sua volta, lo aggredisse?
Ma, Antonio, secondo l’ammonimento dell’apostolo Paolo, si era armato “dell’armatura di Dio per poter resistere alle insidie del diavolo” (Ef. 6,11).
Quando, finalmente, dopo vent’anni, ritornò tra gli uomini, apparve loro come un “iniziato ai più profondi misteri e pieno di Dio” (vita di Antonio)
Nonostante le durissime mortificazioni esternamente non era cambiato. Nel suo sguardo balenava il riflesso di quelle intense esperienze che lo avevano profondamente trasformato nell’animo. Il suo nome fu presto sulla bocca di tutti. Da ogni parte venivano molte persone che si raccomandavano alle sue preghiere, o per vivere, guidati da lui, la vita monastica. Antonio non potè sottrarsi alle continue pressioni di quanti lo pregavano. Ovunque nacquero eremitaggi. Diventò, così, “Padre dei monaci”. Non si trattava ancora di quella forma di monachesimo che poco più tardi sarebbe nata in Tebaide per iniziativa di Pacomio. Infatti, anche se numerosi giovani si radunavano intorno ad Antonio, egli non li raccolse ancora in una comunità stabile retta da una regola comune. La regola monastica tramandata sotto il suo nome, in realtà, è di epoca successiva.
Per quanto avesse decisamente scelto il deserto, ciò non gli impediva di andare tra gli uomini se lo richiedeva l’esigenza della Cristianità. Questo si verificò quando, sotto l’imperatore Massimino Daia (308) si recò a visitare ed a dare forza ai testimoni della Fede in Cristo che languivano nelle carceri di Alessandria. Una seconda volta, alla fine della sua vita, andò nella capitale su invito del suo amico Anastasio per intervenire pubblicamente contro gli ariani. L’altro dato di fatto è la forza di attrazione che egli esercita su tutti i ceti della popolazione fino all’alto clero e alla corte imperiale.
Lo stesso Costantino ed i suoi figli erano in rapporto epistolare con lui. Non è, perciò, un caso che la pietà popolare dei tempi successivi lo abbia posto tra i più grandi intercessori presso Dio.
Antonio morì a 105 anni. E’ stato scritto che era il 356. Per due secoli la sua tomba rimase ignota. Fu scoperta nel 561. Oggi le sue reliquie sono in Francia nella chiesa di San Trophime ad Arles.
Antonio non era un entusiasta o un sognatore al di fuori della realtà. Esigeva moltissimo da se stesso, ma era estremamente positivo con tutti e di grande modestia personale. Conosceva bene i limiti posti all’uomo: “Non è nostro compito penetrare i misteri di Dio, è meglio riconoscere la nostra ignoranza in tutto ciò che sta al di sopra dell’uomo. Ciò che è decisivo è che ognuno badi a se stesso. Anche se un monaco avesse il dono di dare miracolosamente la salute, egli dovrebbe comunque temere per la propria”.
“Contro gli attacchi del demonio c’è solo una via di uscita: l’umiltà. E chi vuole sapere se la virtù di un uomo è autentica, lo metta alla prova verificando se egli sa accettare umiliazioni e rinunce”.
Così raccontano le “Sentenze dei Padri” nel capitolo su Antonio.
“Un monaco era stato molto lodato dai suoi confratelli alla presenza di Antonio. Il santo lo chiamò e gli chiese se sapeva accettare una offesa. Avendogli, quello, risposto di no, si sentì dire: tu sei come un villaggio la cui veduta frontale è molto adorna, mentre la parte posteriore è stata saccheggiata dai predoni.
Un’altra volta disse: “Alcuni si consumano il corpo in mortificazioni; ma mancando della capacità di discernimento, i risultati sono, comunque, lontani da Dio”.
Ad un cacciatore che voleva seguire la vita ascetica disse: “Prendi l’arco, incocca la freccia e tendilo. Se tu lo tendi oltre misura la corda e l’arco si romperanno. Così chi vuole seguire Dio: si spezza se si sottopone ad una tensione oltre misura”.
Quando, un giorno, un monaco gli chiese che cosa doveva fare, Antonio gli rispose: “Non confidare nella tua giustizia, non curarti di ciò che è passato e sforzati di tenere a freno la lingua”.