
Storia ed ipotesi di restauro della Vecchia Chiesa di San Giorgio – parte terza
Pubblicato su Un Popolo in Cammino nell’anno 1993
(Segue)
2.2.5) Intonaci
Diciamo innanzitutto che sono stati individuati cinque tipi diversi d’intonaco sulle murature costituenti la chiesa e cioè: un intonaco di calce utilizzato esclusivamente per l’interno dell’edificio, un intonaco a stucco lustro per i rivestimenti interni, un intonaco a stucco per le cornici, un intonaco di calce per l’esterno ed infine una malta di calce con funzione di allettamento:
La malta è costituita da un impasto di legante (calce con acqua e inerte che può essere argilla cotta, polvere di marmo, pozzolana, ma che nel nostro caso è la sabbia; tale inerte ha lo scopo di frenare il fenomeno del ritiro e riduce la possibilità di crepe (pertanto ci accorgiamo che il rapporto tra legame e inerte, assume una grande importanza).
La presa e l’indurimento della malta sono i due fenomeni che si verificano dopo che la malta è stata messa in opera ed avvengono attraverso due processi distinti, cioè il processo fisico e quello chimico.
Il processo fisico dovuto all’evaporazione dell’acqua d’impasto mentre quello chimico, detto carbonatazione, è quello che provoca l’indurimento della malta mediante l’azione della calce. La calce spenta, infatti, combinandosi con l’anidride carbonica contenuta nell’aria, ritorna allo stato di carbonato di calcio con la seguente reazione chimica
CA(OH)2 + CO2 -D CaCo3 + H20
Oltre ai notevoli pregi la malta denuncia però anche alcuni difetti che in un restauro bisognerà sempre tenere ben presenti e cioè:
- la poca resistenza meccanica (anche se la malta di calce aumenta la resistenza nel tempo);
- La poca durevolezza (la difesa della malta di calce agli attacchi di atmosfere aggressive è molto limitata; infatti, lo vedremo in seguito, il carbonato di calcio con l’inquinamento atmosferico si trasforma in solfato di calcio, cioè gesso che si sfalda e non resiste alle intemperie);
- La gelività (la malta di calce resiste pochissimo all’azione del gelo; il gelo infatti dilata l’acqua presente nell’intonaco, che passa allo stato solido).
- Analizzando invece gli intonaci propriamente detti è sicuramente molto interessante considerare i rapporti tra acqua, legante e inerte; sin dall’antichità il rapporto ottimale è una parte di calce, due parti di sabbia e 0,4 parti d’acqua, per opere di finitura (malta fina), mentre abbiamo un dosaggio di una parte di calce, una parte di sabbia e 0,4 parti di acqua per tutte le altre opere.
Riguardo all’esecuzione di un buon intonaco, questo nel passato veniva realizzato tramite le seguenti operazioni e cioè:
- rinzaffo, è il primo strato dello spessore di 1 o 2 cm;
- arriccio, è il secondo strato dello spessore di pochi millimetri viene applicato direttamente sul rinzaffo;
- Stabilitura, è il terzo strato ed ha il compito di rifinire completamente la superficie.
Se vediamo nel particolare, l’intonaco a stucco utilizzato per le cornici interne, notiamo che esso è costituito da una miscela di gesso, acqua ed una soluzione di colla. Più complicato è il discorso relativo all’intonaco a stucco lustro; esso è una miscela così composta: un parte di calce ed una, oppure 1,5 parti, di polvere di marmo. Quando lo stucco è asciutto può essere lucidato con un soluzione cerosa o saponosa e con un ferro caldo; tale trattamento ha conferito allo stucco lustro della chiesa di S. Giorgio l’aspetto del marmo.
E’ interessante notare che anticamente, e soprattutto nel Rinascimento, si preparavano le malte per stucchi aggiungendo alla calce vari additivi organici (come pasta di segale, lardo di maiale, sangue di bue, letame, latte, vino, fichi, ecc. ) che avevano lo scopo di migliorare le qualità adesive e di ritardare la presa. In seguito a questa trattazione tecnica circa gli intonaci che rivestono le murature dell’edificio, ci occuperemo del loro stato di conservazione.
2.2..6) Stato di conservazione degli intonaci
Anche in questa sede è opportuno sancire che alla base della quasi generalità di fenomeni degradanti dell’intonaco vi è l’umidità in tutte le sue manifestazioni (risalita capillare, acqua piovana, condensa, nebbia) spesso unita all’azione dei sali contenuti nei materiali oppure agli acidi contenuti nell’atmosfera.
Fatta questa brevissima premessa, ci occupiamo ora della descrizione delle alterazioni rilevate sugli intonaci della chiesa di S. Giorgio.
In molte zone dell’edificio è stata notata una mancanza dello strato esterno dell’intonaco; tale fenomeno è tipico dell’azione del gelo.
La gelività infatti si manifesta soprattutto sugli straripi superficiali del materiale, frantumandoli, la causa di ciò è appunto da ricercarsi nell’umidità (che spesso può essere la stessa umidità contenuta nell’ambiente) che si insedia nei pori della sostanza e quando vi è un abbassamento della temperatura, essa si tramuta in ghiaccio aumentando di volume e provocando i danni ben noti. Spesso i fenomeni di gelività sono associati anche a degradazioni provocate dall’inquinamento atmosferico, dall’erosione eolica, dalle microfissurazioni aperte dagli agenti biologici.
Abbiamo rilevato poi, in diversi punti, specie sulla facciata, un decoesionamento tra gli strati, cioè una diminuzione della coesione e dell’adesione tra i componenti strutturali, con aumento di porosità e lieve peggioramento delle caratteristiche meccaniche dell’intonaco. Questo è dovuto alla concomitanza di vari fattori e cioè principalmente ancora all’azione dell’umidità unita ad azioni chimiche causate dall’inquinamento atmosferico nonché da eventuali sbalzi termici.
A queste alterazioni segue poi, in molte parti della muratura, un distacco completo dell’intonaco dal supporto che possiamo definire come una soluzione di continuità tra strati superficiali del materiale (sia tra loro che rispetto al substrato) e prelude in genere alla caduta del materiale stesso.
Le cause che lo generano sono sempre le medesime ed è macroscopicamente visibile poiché i mattoni costituenti la muratura, altrimenti celati, risultano direttamente a vista.
Fase immediatamente precedente al distacco è quella del rigonfiamento, dove cioè l’intonaco si solleva letteralmente dal supporto a causa di forze meccaniche esercitate dall’umidità che si tramuta in ghiaccio e dai sali che cristallizzano.
Naturalmente laddove manca la copertura (zona absidale e zona mediale) nonché sulla facciata (dove evidentemente i canali di scolo delle acque piovane sono praticamente ormai inesistenti), si verifica il fenomeno del dilavamento superficiale. Praticamente la pioggia dilavando le facciate degli edifici con un vero e proprio ruscellamento, provoca la dissoluzione dei materiali superficiali, nonché distacchi meccanici di piccolissime particelle.
Queste sostanze diluite e trasportate dall’acqua, colano lungo la facciata e si depositano o lungo i bordi dei colaticci (zona di minore velocità e quindi con maggiore velocità di sedimentazione) o in quelle parti dove il refluimento è in qualche modo impedito. Il fenomeno può avere gli effetti più diversi che sono compresi tra il dilavamento completo e privo di colaticci, che si verifica in genere in quelle zone esposte a forti piogge battenti, che operano veri e propri lavaggi di tutta la facciata, e la rigatura anche profonda di quegli intonaci poco compatti e quindi friabili (come nel vostro caso).
Pertanto accanto a questa patologia troviamo anche quella che noi abbiamo definito come deposito di particellato, cioè un accumulo (spesso formato dalla pioggia dilavante) di materiali estranei di varia natura, quali ad esempio polvere, terriccio, guano o anche calcina; ha spessore variabile, scarsa coerenza e aderenza al materiale sottostante.
Anche l’inquinamento atmosferico minaccia sempre più da vicino le opere architettoniche; le sostanze nocive sono le più diverse, come l’anidride carbonica, gli ossidi di azoto, l’acido fluoridrico, cloridrico, ma di gran lunga la sostanza più dannosa è l’anidride solforosa, specie quando essa si combina con l’acqua presente nell’ambiente, generando l’acido solforico (H SO).
L’acido solforico combinandosi con il carbonato di calcio presente negli intonaci (ma anche nelle pietre e nelle malte) produce il solfato di calcio biidrato, che altro non è che il gesso, secondo la seguente reazione chimica:
CaCO + H SO + HO CaSO x 2 HO + CO
Il gesso, che si accumula sulla superficie, viene dilavato ed asportato dalla pioggia perché altamente solubile, tale fenomeno è chiamato solfatazione. Il materiale “solfato” si presenta generalmente decoesionato con distribuzione diffusa, ma anche localizzata sotto forma di croste, le cosiddette crostenere (presenti anche nella fabbrica di S. Giorgio).
Pertanto negli strati sottostanti la crosta sono presenti abbondanti tracce di gessi, dovute alla solfatazione del materiale e perciò comprendiamo la gravità di tale alterazione.
Da rilevare poi ancora in maniera estesa sugli intonaci, la presenza di sali ed efflorescenze (fenomeno già trattato in precedenza a proposito dei laterizi), innescato come sappiamo, dall’umidità in concomitanza con i sali solubili presenti nel materiale; questa patologia è ripetutamente presente su tutti gli intonaci della chiesa.
(continua)
Una opinione su "Storia ed ipotesi di restauro della Vecchia Chiesa di San Giorgio – parte quarta"